Cortina d’Ampezzo è diventata negli ultimi anni il teatro di una delle più nette contraddizioni tra retorica olimpica e impatto ambientale reale. La nuova pista da bob “Eugenio Monti”, voluta come fiore all’occhiello per le Olimpiadi Milano-Cortina 2026, si porta dietro costi esorbitanti, tagli di boschi secolari e un futuro di gestione che gli stessi attori istituzionali faticano a rendere credibile. Per gli ambientalisti che hanno seguito la vicenda sin dall’inizio, non si tratta di accidenti: «il disastro era annunciato».
Il primo conto che salta all’occhio è quello naturalistico. Per realizzare la pista sono stati previsti — e in parte già effettuati — abbattimenti massicci: le associazione ambientaliste hanno denunciato l’abbattimento di circa 500 alberi secolari, definendo l’operazione «un atto totalmente distruttivo e irresponsabile». La perdita di copertura forestale in alta montagna non è soltanto una questione estetica: modifica microclimi locali, aumenta il rischio di erosione e frane e riduce la capacità del territorio di rilasciare ossigeno e trattenere carbonio, proprio laddove la tutela dovrebbe essere più rigorosa.
Sul fronte economico il conto è ugualmente fosco. Un’analisi del Piano economico-finanziario mette in luce costi di realizzazione già saliti e spese di gestione future che rischiano di trasformare la pista in un pozzo senza fondo per denaro pubblico. «Il report appena pubblicato sui costi di gestione e manutenzione … non fa che confermare ciò che da anni denunciamo: siamo di fronte a uno spreco di denaro pubblico senza precedenti», hanno affermato i consiglieri regionali Avs della passata legislazione, Renzo Masolo e Andrea Zanoni, riferendosi anche a stime contenute in dossier affidati a società di consulenza.
A questo si somma il paradosso energetico. L’eurodeputata verde Cristina Guarda ha più volte sollevato l’attenzione sul peso energetico dell’impianto: «Sin dall’inizio, abbiamo sempre chiesto di usare impianti esistenti, visto il peso del totale rifacimento della pista di Cortina, costosa nella sua realizzazione ed ancora più dispendiosa nel suo mantenimento». In un’epoca di crisi energetica e di impegni climatici, l’idea di un’infrastruttura ad alto consumo, pensata per poche settimane di utilizzo agonistico, appare antitetica ai principi di una pianificazione rispettosa dell’ambiente.
Non manca la dimensione politica la pista è stata spesso al centro di polemiche, inchieste e rimpalli istituzionali. Se la Regione e i rappresentanti ufficiali esaltano l’opera come «iconica» e simbolo di rilancio (si veda, ad esempio, la comunicazione istituzionale che segna tappe e inaugurazioni), il coro dell’opposizione ambientalista denuncia scelte imposte «a tutti i costi» e senza alternative credibili. Il confronto tra il linguaggio celebrativo delle istituzioni e i rilievi tecnici ed ecologici delle associazioni mette in chiaro che qui non si tratta solo di sport: è in gioco la gestione del territorio e la responsabilità verso le comunità locali.
Esistono proposte alternative che le varie associazioni ambientaliste di difesa della montagna hanno più volte rilanciato: riutilizzare impianti già esistenti in aree già attrezzate (anche all’estero, come il modello Igls/Innsbruck è stato evocato), piuttosto che costruire ex novo in aree sensibili. Questa strada avrebbe evitato il massacro arboreo e ridotto l’impatto complessivo, oltre a limitare lo spreco di risorse. E che le alternative fossero praticabili lo dimostra il fatto che soluzioni diverse sono state proposte e discusse pubblicamente sin dal 2023.
Il racconto delle responsabilità non può chiudersi con l’elenco dei danni. Serve una riflessione più ampia su come si concepiscono oggi grandi eventi e infrastrutture: se lo standard resta «lasciar tutto com’è» fino all’emergenza e poi intervenire con opere voluminose e impattanti, il rischio è che il cosiddetto «lascito positivo» delle Olimpiadi si trasformi in un’eredità di costi e ferite ambientali. Gli ambientalisti non chiedono pellegrinaggi ideologici, ma trasparenza, conti verificabili e priorità per il bene comune: gestione parsimoniosa, uso degli impianti esistenti e massima tutela del patrimonio naturale.
In chiusura: mentre i bandi, i report e i comunicati continuano a rincorrersi, in montagna comanda il rombo delle motoseghe, il rumore della betoniera e il calore artificiale dei refrigeratori. Quel che rimarrà di Cortina dopo il clamore delle cerimonie lo misureranno non gli applausi, ma la qualità dell’acqua, del suolo e dell’aria. E la memoria di chi abita la montagna. Non è solo uno spreco economico, è uno sfregio al paesaggio e un monito su come non dovrebbero più essere pensate le grandi opere in un’epoca di crisi climatica.
EcoMagazine Osservatorio sui conflitti ambientali