Vien da chiedersi se la location era davvero casuale. Magari anche sì. Certo è che parlare del Mose e del sistema di malaffare ad esso connesso, proprio dentro il palazzo delle Prigioni, è stata una istigazione ai nostri peggiori istinti giustizialisti. A cominciare da quel Maurizio Dianese che, nel suo ruolo di moderatore oltre che di autore del libro, non ha fatto altro che chiedere a tutti – come provocazione, per carità! – cosa ne pensavano di quell’antica usanza non soltanto islamica di tagliare le mani ai malfattori. Amputazioni o no, qualche piano sotto i famigerati Piombi, ai veneziani di oggi scappava di pensare ai veneziani di ieri ed a quali supplizi avrebbero condannato tali corrotti e corruttori, rei di peculato con la pesante aggravante, che all’epoca da sola giustificava la decapitazione, di aver devastato madre laguna per interessi privati.
Ma torniamo al nostro triste presente in cui i reati ambientali non sono neppure presi in considerazione dal codice penale. Corruzione, concussione, riciclaggio, turbativa d’asta, evasione fiscale – tanto per citare alcuni capi d’accusa mossi alla cricca del Mose – ancora sì. Ed è proprio questo aspetto che viene affrontato nel libro presentato ieri sera alle Prigioni di Palazzo Ducale: “Mose. La retata storica”, pubblicato dal Gazzettino e scritto da tre suoi giornalisti, Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e, per l’appunto, Maurizio Dianese.
Ospiti d’eccezione, Carlo Nordico, procuratore aggiunto di Venezia, e due dei magistrati che hanno coordinato l’inchiesta: Stefano Ancilotto e Stefano Buccini. Dietro il tavolo dei relatori, anche il direttore del Gazzettino, Roberto Papetti. Unico politico e componente dell’ex Giunta invitato agli organizzatori, Gianfranco Bettin, che anche in tempi non sospetti ha sempre denunciato il malaffare legato al “sistema Mose”.
Un malaffare che, spiega Dianese, permeava l’intera società veneziana. Il giornalista dipinge lo scandalo Mose come il più grande dell’intera storia Repubblicana: “Tanto per fare un esempio,la maxi tangente Eni che ha dato il via a Tangentopoli era di 70 milioni di euro, mentre il Mose ha fruttato perlomeno un miliardi di euro in 10 anni”. Dianese racconta di gente con sporte piene di denaro in giro per le calli e di come “il Consorzio abbia pagato politici, società di calcio, partiti, associazioni, consulenti, finanzieri, amministratori… tutti, tutti a Venezia sono stati pagati dal Consorzio”.
Si vede che frequento la gente sbagliata. Quali che conosco io, dal Consorzio hanno avuto solo querele, denunce e calci in culo. E mettiamoci anche qualche manganellata dalla Celere perché sventolavano striscioni con scritto “A Venezia la mafia si chiama Consorzio Venezia Nuova”.
Che non siamo tutti uguali, al Dianese, gliela canta pure Bettin: “Ti passo quel ‘tutti’ come una licenza poetica. C’è tanta gente, anche in questa sala, che il malaffare del Consorzio lo ha sempre denunciato”. Il sociologo è l’unico a sottolineare che il danno operato dalla cricca del Mose non può essere confinato nell’ambito delle ruberie, sia pure miliardarie, ma investe l’ambiente e, più generale, la stessa democrazia. “Col Consorzio non è mai stato possibile discutere o sollevare obiezioni. Il Mose ha avuto una sola Via ed è stata negativa. Ma i lavori sono partiti ugualmente sotto il segno della prepotenza. Inutile il voto contrario del sindaco e del consiglio comunale. Un sistema delinquenziale che non è stato ancora sconfitto e che è tutt’ora in mano a malfattori che hanno lucrato sulla salvaguardia e anche sulle bonifiche di porto Marghera. Crimine questo, particolarmente odioso perché hanno approfittato anche dei finanziamenti che sequestrati dalla magistratura e destinati al recupero di aree dove la gente muore avvelenata”.
Come era prevedibile, i tre magistrati spostano il discorso sulla legalità. Al Dianese che gli chiede “Che fare?”, Nordio sottolinea come l’inasprimento delle pene non sia una soluzione al “mal di tangente” che permea la politica italiana. Non è sufficiente neppure migliorare gli strumenti processuali. “Bisogna piuttosto intervenire sugli strumenti che il corrotto adopera: semplificare le leggi, individuare le competenze. Così si tagliano gli artigli al corrotto. Ma questa è una soluzione che il nostro Governo non intende prendere in considerazione”.
C’è anche un aspetto culturale, come sottolinea Buccini: “La soluzione del problema non può essere solo giudiziaria. La scelta di legalità è una scelta individuale e non di sistema. Chi rispetta le regole lo fa a suo giudizio e non viene mai premiato dal sistema che invece elogia i corrotti”. Ne sono un esempio i funzionari pluricondannati che l’assessore regionale Renato Chisso promuoveva ai vertici dei servizi regionali.
E il famoso taglio della mano? Non serve, spiegano i magistrati. Chi delinque, dà sempre per scontato di farla franca e non si fa spaventare dalle pene pur se truculente.
Certo che, quando scopri che corrotti come Giancarlo Mazzacurati dopo l’arresto, la confessione ed il patteggiamento si recano a cena da Paolo Costa per chiedere lo scavo del Contorta, cominci a sospettare che nel sistema qualcosa non funziona. E se poi leggi che dei No Tav rischiano un’accusa di terrorismo e la galera a vita per aver tagliato una rete, allora sei sicuro, che qualcosa nel sistema non funziona. Ma questi sono gli amici nostri. Quelli che Dianese non prende neppure in considerazione. Quelli che dal Consorzio (o dalla Tav, o dall’Expo o fate voi…) non hanno mai avuto niente se non querele, denunce e calci in culo.
Frequento proprio la gente sbagliata.
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