Dopo decenni di uso quotidiano, siamo di fronte ad una rivolta mondiale contro la plastica.
di Stephen Buranyi – La plastica è ovunque, ed improvvisamente abbiamo deciso che è non è affatto una cosa positiva. Fino a poco tempo fa, la plastica godeva di una sorta di strano anonimato: eravamo così circondati da riuscire a focalizzare la sua presenza. Potresti essere sorpreso di sapere, per esempio, che le auto e gli aerei di oggi sono realizzati all’incirca per il 50% in plastica. La maggior parte dei vestiti sono fatti in poliestere e nylon, entrambi materiali plastici, e non in cotone o in lana. La plastica viene anche utilizzata in quantità minime come adesivo per sigillare la maggior parte delle bustine da tè infuse in Gran Bretagna ogni anno.
Aggiungici la marea di giocattoli, di oggettistica per la casa, di imballaggi usa e getta, e ti accorgi che siamo davanti ad un imparo. È il materiale che fa da sfondo, colorato ma banale, alla nostra vita moderna. Ogni anno, il mondo produce circa 340 milioni di tonnellate di plastica, sufficienti a riempire tutti i grattacieli di New York. L’umanità ha prodotto quantità impossibili di plastica per decenni, superando per la prima volta i 100 milioni di tonnellate all’inizio degli anni ’90. Ma per qualche strana ragione, è solo di recente che la gente ha cominciato a preoccuparsi.
Il risultato è una rivolta mondiale contro la plastica, che supera i confini nazionali e anche le tradizionali divisioni politiche. Nel 2016, una petizione di Greenpeace per vietare le microsfere di plastica in Gran Bretagna, ha raggiunto 365 mila firme in soli quattro mesi, così da diventare la più grande petizione ambientale mai presentata al Governo. Dagli Stati Uniti alla Corea del Sud, gruppi di cittadini indignati hanno ricoperto i supermercati con mucchi plastiche derivanti da imballaggi giudicati eccessivi e inutili. All’inizio di quest’anno, i cittadini del Regno Unito hanno rispedito per protesta ai produttori tanti di quegli imballaggi non riciclabili da intasare il servizio postale. Anche il principe Carlo ha tenuto discorsi sui pericoli di plastica, e Kim Kardashian su Instagram si è espressa sulla questione della plastica dichiarando di aver rinunciato alle cannucce.
Agli alti livelli del Governo, il “panico da plastica” è gestito confusamente come un disastro naturale o un pericolo per la salute pubblica. Le Nazioni Unite hanno dichiarato guerra alla plastica monouso. In Gran Bretagna, Theresa May l’ha definita un “flagello” ed ha impegnato il Governo con un piano di 25 anni che eliminerebbe gradualmente gli imballaggi usa e getta entro il 2042. L’India ha affermato che avrebbe fatto lo stesso, ma entro il 2022.
Julian Kirby, un attivista di Friends of the Earth, mi ha detto che “non ho mai visto nulla di simile in quasi due decenni di campagne”. Friends of the Earth ha iniziato ad occuparsi di plastica solo nel 2016; Greenpeace non aveva una sezione dedicata alla plastica sino al 2015. Un giornalista del Daily Mail, uno dei primi giornali cha ha cavalcato quest’onda, mi ha raccontato di aver ricevuto più posta sulla plastica che su qualsiasi altra questione ambientale (“addirittura più dei cambiamenti climatici “, mi ha spiegato).
Per non parlare del noto documentario Blue Planet II. Lo scorso dicembre, l’episodio finale della serie ha dedicato sei minuti all’impatto della plastica sulla vita marina. C’era una tartaruga, irrimediabilmente imprigionata in una rete di plastica, e un albatros, morto a causa dei frammenti di plastica finiti nel suo stomaco. “L’episodio ha ottenuto più reazioni di tutti gli altri della serie”, mi ha detto Tom McDonald, responsabile delle trasmissioni della BBC. “Le persone non volevano solo discutere sull’episodio – come succede sempre – ci stavano chiedendo soluzioni per sistemare le cose.” Nei giorni successivi, i politici hanno ricevuto una montagna di chiamate e di mail da cittadini indignati da quanto avevano visto nel programma. Si è cominciato a parlare di un effetto “Blue Planet II” per spiegare come mai l’opinione pubblica sia diventata improvvisamente così nemica della plastica.
Tutto ciò ha spinto qualcuno a credere di essere vicini ad una grande vittoria ambientale, come non si vedeva dalla battaglia contro le piogge acide di trent’anni fa. Una grande ondata di indignazione pubblica sta chiedendo ai Governi di legiferare per eliminare la plastica dalla nostra vita e, stando al grande impegno profuso, i segnali sembrano promettenti.
Ma sbarazzarsi della plastica richiederebbe molto di più che un semplice angolo di supermercato prima di imballaggi o l’obbligo di usare cannucce di cartone al pub. La plastica si trova dappertutto non perché sia sempre stata migliore dei materiali naturali che ha sostituito, ma perché è più leggera e meno costosa – così economica che si spiega facilmente come mai viene buttata via. I clienti hanno trovato tutto ciò conveniente e le aziende sono state felici di vendere un nuovo contenitore di plastica per ogni bottiglia di bibita o per ogni sandwich acquistato. Allo stesso modo in cui l’acciaio ha permesso nuove frontiere nell’edilizia, la plastica ha reso possibile quella cultura del consumatore a basso costo “usa e getta” che oramai diamo per scontata. La plastica è l’emblema del consumismo. Ci mette davanti agli occhi quanto il nostro modo di vivere abbia radicalmente cambiato il pianeta nell’arco di una sola vita, e ci viene da chiederci se sia eccessivo.
Un pulcino di albatros dai piedi neri con detriti di plastica nel suo stomaco, trovato nell’Atollo di Midway. Fotografia: Dan Clark / USFWS
La cosa più sorprendente del movimento anti-plastica è la rapidità con cui è cresciuto. Prima del 2015, sapevamo tutte le cose che sappiamo oggi sulla plastica, ma nessuno se ne curava Fino a tre anni fa, la plastica era solo un problema tra i tanti – come il cambiamento climatico, le specie in via di estinzione o la resistenza agli antibiotici – su cui tutti erano d’accordo ma pochissimi pensavo di fare qualcosa.
E questo non accadeva per mancanza di impegno da parte degli scienziati. L’avversione verso la plastica è stato costruito in quasi tre decenni. All’inizio degli anni ’90, i ricercatori avevano notato che circa il 60-80% dei rifiuti nell’oceano era di plastica non biodegradabile e che la quantità di plastica che si accumulava sulle spiagge e nei porti era in aumento. Poi giunse la notizia che la plastica si stava accumulando negli spazi di mare tra le correnti oceaniche, formando ciò che l’oceanografo Curtis Ebbesmeyer ha chiamato “great garbage patches”. Il più grande “garbage patches” – Ebbesmeyer calcola che ce ne siano otto in tutto – è tre volte più grande della Francia e contiene circa 79.000 tonnellate di rifiuti.
Nel 2004, la gravità del problema è diventata ancora più chiara quando l’oceanografo dell’Università di Plymouth, Richard Thompson, ha coniato il termine “microplastica” per descrivere i miliardi di minuscoli frammenti di plastica che derivano dalla rottura di plastiche più grandi o sono stati deliberatamente creati per essere utilizzate in prodotti commerciali. I ricercatori di tutto il mondo hanno iniziato a dimostrare come queste microplastiche si introducessero negli apparati biologici degli animali, dal minuscolo krill agli enormi pesci come il tonno. Nel 2015, un gruppo guidato dall’ingegnere ambientale dell’Università della Georgia Jenna Jambeck ha stimato che una quantità di plastica tra i 4,8 e i 12,7 milioni di tonnellate, veniva gettate nell’oceano ogni anno, un numero che sarebbe raddoppiato entro il 2025.
Il problema della plastica era incredibilmente grande, stava crescendo ancora di più, ma era difficile convincere le persone a prenderlo a cuore. Ogni tanto si leggevano nei media storie allarmanti sulla plastica che riuscivano a catturare l’interesse del pubblico: la spazzatura era uno dei temi preferiti dai giornalisti, che lanciavano nuovi allarmi sulle discariche o sulle enormi quantità di rifiuti che spediamo all’estero – ma era niente in paragone ad oggi. Roland Geyer, l’influente studioso di ecologia industriale dell’Università della California, mi ha detto che tra il 2006 e il 2016 ha tenuto meno di 10 conferenze sulla plastica; negli ultimi due anni, gli è stato chiesto di farne più di 200.
A cosa sia dovuto questo cambiamento è una questione tutta da discutere. La risposta più plausibile, e la sola che mi hanno dato gli scienziati e gli attivisti che ho intervistato, non è quella che la scienza ha fornito risposte definitive sui pericoli della plastica, o che ci siamo fatti tutti intenerire dalle immagini di adorabili creature marine soffocate dai nostri rifiuti (anche se queste cose sono importanti). Ma che è che è cambiato, e ad un livello profondo, il modo in cui noi pensiamo alla plastica. Prima la vedevamo come un rifiuto – seccante ma non minaccioso. Questa visione è stata spazzata via da una consapevolezza generale che la plastica è molto più onnipresente e sinistra di quanto la maggior parte della gente avesse mai immaginato prima.
Il cambiamento di pensiero è cominciato con la protesta pubblica contro le microsfere, i piccoli grani abrasivi di plastica che le aziende hanno cominciato a riversare nei prodotti cosmetici e di pulizia a metà degli anni ’90 per aggiungere granulosità. (Quasi tutti i prodotti in plastica hanno un antecedente naturale e spesso biodegradabile – le microsfere di plastica hanno sostituito i semi o le pietre pomici.) Gli scienziati hanno iniziato a sollevare l’allarme sui potenziali pericoli alla vita marina nel 2010 e le persone sono rimaste scioccate nell’apprendere che le microsfere si trovavano in migliaia di prodotti, dalle creme per il viso Johnson & Johnson, a marchi apparentemente eco compatibili come il Body Shop.
Secondo Will McCallum, responsabile delle campagne contro la plastica di Greenpeace, la creazione di prodotti con le microsfere che riversavano milioni di particelle nel canale di scolo della doccia è stato il momento chiave nella svolta dell’opinione pubblica contro la plastica. “È stata una scelta di progettazione sbagliata”, ha detto. “Ha portato le persone a domandarsi a che punto siamo arrivati'” Nel 2015, quando il Congresso degli Stati Uniti ha votato un limite ai cosmetici che contenevano microsfere, questo è stato approvato con un ampio sostegno sia della maggioranza che dell’opposizione. “La questione è passata da una consapevolezza quasi zero nell’opinione pubblica, a una sorta di shock generalizzato”, afferma la deputata Mary Creagh, presidente del Parlamento del Regno Unito. Il comitato di controllo, che ha esaminato la questione delle microsfere nel 2016, ha concluso con l’emanazione di un divieto totale sulla loro produzione e vendita.
Ma le microsfere erano solo l’inizio. La gente ha imparato subito che tessuti sintetici come il nylon e il poliestere perdono migliaia di fibre microscopiche ad ogni ciclo di lavaggio. Quando gli scienziati hanno cominciato a mostrare come queste fibre finivano nelle viscere dei pesci, i giornali hanno pubblicato articoli con titoli come “I pantaloni Yoga stanno distruggendo la Terra”, mentre marchi eco-consapevoli come Patagonia cercavano soluzioni alternative. (L’anno scorso Patagonia ha iniziato a mettere in commercio un gadget per lavatrice chiamato Guppyfriend, che cattura “un po ‘” della plastica che si stacca dagli indumenti.) È stato dimostrato che anche gli pneumatici, che sono realizzati all’incirca per il 60% in plastica, quando sono in movimento, sono potenzialmente molto più inquinanti di indumenti e microsfere.
Gli oggetti di tutti i giorni cominciarono ad apparire come una possibile fonte di contagio e c’era ben poco da fare al riguardo. Nei forum del sito di genitori “Mumsnet”, ci sono centinaia di post su prodotti cosmetici alternativi che non contengono microsfere – ma non ci sono ancora consigli per pneumatici privi di plastica! La deputata Anna McMorrin, che ha sollevato la questione in parlamento, mi ha spiegato che i suoi elettori erano esasperati. “Mi stanno dicendo tutti: ’io sono attento a cosa compro, riciclo il riciclabile, ma cosa posso fare quando la plastica è ovunque?’”
Secondo Chris Rose, ex direttore di Greenpeace che tiene un importante blog sulla comunicazione ambientale, gli scienziati da tempo sapevano che la plastica era un pericoloso inquinante, ma fino a poco fa la gente aveva una visione molto diversa. Per la maggior parte delle persone, la plastica sembrava facile da utilizzare. Di plastica erano realizzati gli oggetti quotidiani che si compravano e si buttavano via. Cose che si potevano vedere e toccare, e, in un certo senso tutto sembrava sotto controllo. Anche se nessuno si mobilitava per risolvere il problema, tutti sentivano che, se davvero l’avesse voluto, avrebbero potuto risolverlo – e senza particolari problemi. Come se si potesse raccoglierlo e infilarlo in un cestino.
Ma oggi la plastica non ci dà più questa impressione. È ancora un materiale comune – la troviamo nei nostri prodotti domestici, tazze di caffè, bustine di tè e vestiti – ma sembra essere sfuggito alla nostra capacità di gestirlo. Ci scivola tra le dita come gli scarichi di una sinistra fabbrica industriale scivolano nei fiumi e negli oceani. Il problema non è più riconducibile ad un contenitore di Big Mac abbandonato sul lato della strada. E’ più simile a un prodotto chimico che prima nessuno notava, scritto in caratteri piccoli nel mezzo dell’elenco delle varie componenti di una lacca per capelli, ma capace di produrre mutazioni nei pesci o bucare lo strato di ozono.
Rifiuti di plastica spiaggiati sull’isola di Christmas, in Australia. Fotografia: Daniela Dirscherl / Getty Images / WaterFrame RM
La rivolta pubblica contro la plastica non era stata prevista dagli scienziati o dagli ambientalisti, che sono abituati a non veder prendere in considerazione i loro avvertimenti. In effetti, oggi alcuni scienziati sembrano vagamente imbarazzati dalla portata assunta dalla faccenda. “Ogni giorno mi domando come sia che la plastica è diventato il nemico pubblico numero 1”, afferma l’oceanografo del Imperial College, Erik van Sebille. “Dovrebbe esserlo i cambiamenti climatici”. Altri scienziati con cui ho parlato hanno minimizzato l’inquinamento plastico come un problema tra i tanti, sebbene abbia avuto il merito attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su questioni più urgenti.
Ma a differenza dei cambiamenti climatici, che sembrano distanti, troppo vaghi ed apocalittici, la plastica è più piccola, più tangibile e fa già parte delle nostra vita. “Le persone non amano i calcoli complicati – questa è X volte peggio di quest’altro”, dice Tom Burke, ex direttore di Friends of the Earth. “cCi sono dei momenti in cui tutti sentono un problema alla stessa maniera, e allora arriva la spinta. Ma quello che vogliono le persone è solo che le cose siano sistemate”. O, come Christian Dunn, docente di ecologia all’Università di Bangor, che ha trascorso un anno a lavorare per trasformare la sua città natale, Chester, in una delle città più libere dalla plastiche della Gran Bretagna, ed afferma: “È un problema su cui possiamo intervenire”.
Chiacchierando con Dunn e la sua collega Helen Tandy, che dirige la sezione locale Friends of the Earth ed è una ambientalista di lunga data, la battaglia contro la plastica sembra naturale e ovvia. Danno la sensazione di aver aderito a una campagna politica rivoluzionaria. Le aziende, dal Costa Coffee al fruttivendolo, hanno messi adesivi di sostegno dalle loro finestre. “Chiedi una cannuccia a qualsiasi pub di Chester e ti diranno ‘Non posso. Uccide le balene’”, mi ha raccontato un giovane barista. Un costruttore di nome Dylan mi ha detto che ha iniziato a raccomandare ai suoi clienti di scegliere i raccordi senza imballaggi di plastica. Quelli venduti da B&Q ne hanno troppa, ha spiegato.
Allo zoo di Chester, il responsabile delle strutture ha affermato che il loro bar sta eliminando gli imballaggi di plastica monouso e stanno lavorando per bonificare anche il negozio di articoli da regalo. Lo zoo è la più grande attrazione della zona e esercita un’enorme richiamo per i residenti. “E i sacchi di mangimi? E le altre cose per gli animali?” Ha chiesto Dunn. (Il manager ha risposto che ci avrebbero pensato.) Mentre uscivamo, un gruppo di scolari si stava incamminando verso la gabbia dell’elefante e avevano in mano dei palloncini viola di mylar. “Dove li hanno presi?” Si è chiesto Tandy. “La prossima volta andremo sino in fondo anche a questa questione.”
Negli ultimi due anni, questo genere di campagne anti plastica, incessanti e pragmatiche, sono cresciute. Come inevitabile conseguenza, siamo entrati in una fase in cui ogni marchio, ogni organizzazione e ogni forza politica si sforza di mostrare di fare qualcosa. Scorrendo i comunicati stampa sul tema della plastica, anche per poche settimane, apprendi che il Tottenham Hotspur sta pianificando di eliminare gradualmente tutte le plastiche monouso dal loro nuovo stadio, Seattle ha vietato le cannucce di plastica entro i confini della città, mentre la sua catena di caffè più famosa, Starbucks, ha promesso di rimuovere circa un miliardo di cannucce all’anno nelle sue 28.000 sedi globali e la Lego, che produce solo prodotti plastici, sta esaminando alcuni sostituti a base vegetale per i suoi celebri mattoncini.
Non si può fare a meno di notare una leggera vena maniacale in tutto questo. Natalie Fee, un’attivista che ha fondato il gruppo City to Sea con sede a Bristol, mi ha detto che dopo essere apparsa alla BBC l’anno scorso per parlare di plastica, ha iniziato a ricevere molte più richieste di tenere conferenze in banche e in aziende come guru motivazionale, che è il suo lavoro. C’è anche un chiaro aspetto di opportunismo in tutto questo. Un ex membro del personale del Dipartimento per l’ambiente, l’alimentazione e l’agricoltura (Defra) mi ha detto che la plastica è stata usata all’interno del suoi dipartimento come l’opportunità per varare politiche popolari e non partitiche capaci di colmare il vuoto causato dalla Brexit. “[Michael] Gove era desideroso di mostrare come potevamo agire da soli, e bene, nelle politiche ambientali. La plastica era perfetta per questo scopo” ha spiegato lo staff della Defra.
Qualunque siano le motivazioni dei politici, la spinta dell’opinione pubblica ha indubbiamente portato un serio problema ambientale all’attenzione degli alti livelli del Governo e degli affari, e li ha convinti che si tratta di una questione vincente. Ma solo una minima parte delle misure proposte contro la plastica sono state codificate dalla legge – i divieti di microsfere degli Stati Uniti e del Regno Unito sono le eccezioni – ma la sensazione è la questione offra un enorme potenziale.
Eppure, nonostante la presenza onnipresente nelle nostre vite, la maggior parte delle persone farebbe fatica a dirti che cos’è la plastica, chi la produce e da dove viene. Questo è comprensibile: la plastica è un prodotto industriale globale, realizzato lontano dagli occhi della gente. Le materie prime provengono dai combustibili fossili e molte delle stesse grandi aziende che lavorano petrolio e gas producono anche plastica, e spesso anche negli stessi stabilimenti. La storia della plastica è la storia dell’industria dei combustibili fossili e del petrolio – che ha avuto il suo boom nella cultura del consumo dopo la seconda guerra mondiale.
La plastica è un termine generico per il prodotto che si ottiene trasformando una miscela chimica ricca di carbonio in una struttura solida. Nel 19° secolo, i chimici e gli inventori stavano già fabbricando oggetti domestici come pettini, usando una specie di plastica, chiamata prima Parkesine, in seguito ribattezzata celluloide, perché era ricavata dalla cellulosa vegetale. Ma l’era moderna della plastica iniziò con l’invenzione della bachelite negli Stati Uniti nel 1907. La bachelite – un materiale completamente sintetico che utilizzava il fenolo, una sostanza chimica derivata dal processo di trasformare di petrolio greggio o carbone in benzina – è duro, lucido e dai colori vivaci. Oggi lo riconosceremmo come una materia plastica. I suoi inventori intendevano utilizzare la bachelite come isolante per il cablaggio elettrico, ma presto capirono che il suo potenziale era quasi illimitato, e lo pubblicizzarono come un “materiale dai mille usi”. Una definizione che oggi possiamo dichiarare assolutamente sottostimata.
Nuove varietà di plastica furono sviluppate nei successivi decenni e il pubblico fu affascinato da questo materiale meraviglioso infinitamente malleabile che la scienza aveva creato. Ma fu la seconda guerra mondiale a rendere la plastica davvero indispensabile. Con la scarsità di materiali naturali e le enormi risorse richieste dallo sforzo bellico, il potenziale della plastica che poteva diventare quasi tutto – usando solo “carbone, acqua e aria”, come disse uno dei massimi esperti nella materia Victor Yarsley nel 1941 – lo rese vitale per l’industria militare. Un articolo su Popular Mechanics del 1943 descrive mirini, pallottole, detonatori i proiettili di mortaio, sedili di aeroplani realizzati con la plastica. Addirittura le truppe avevano cominciato a usare trombe di plastica.
Tra il 1939 e il 1945, la produzione di plastica negli Stati Uniti fu più che triplicata, passando da 97.000 a 371.000 tonnellate. Dopo la guerra, giganti chimici e petroliferi si spartirono e consolidarono il mercato. DuPont, Monsanto, Mobil e Exxon acquistarono o svilupparono impianti di produzione di plastica. Tutto questo aveva una sua logica: queste società possedevano già la materia prima per la plastica, sotto forma di fenolo e nafta, sottoprodotti della lavorazione del petrolio. Sviluppando nuovi materiali plastici – come l’invenzione di Styrofoam di Dow negli anni ’40, o i molteplici brevetti detenuti da Mobil per le pellicole utilizzate negli imballaggi – queste società stavano effettivamente apprendo nuovi mercati al loro petrolio e al loro gas. “Lo sviluppo dell’industria petrolchimica è probabilmente il più grande fattore che alla crescita dell’industria delle materie plastiche “, ha scritto un ricercatore dell’Australia National Science Agency nel 1988.
Nei decenni di crescita economica che seguirono la guerra, la plastica iniziò l’inesorabile ascesa che l’avrebbe portata a sostituire cotone, vetro e cartone come materiale di prima scelta per i prodotti di consumo. Nei primi anni ’50 fu introdotta la sottile confezione di plastica, che sostituiva la carta e il tessuto per proteggere gli alimenti e in prodotti per la pulizia. Entro la fine di quello stesso decennio, la DuPont aveva fabbricato e venduto un miliardo di questi fogli di plastica. Nello stesso tempo, la plastica è entrata in milioni di case sotto forma di vernici e di isolamenti in polistirolo, senza dubbio un enorme miglioramento rispetto alla puzzolente pittura ad olio ed ai costosi pannelli in lana di roccia o in fibra di legno. Ben presto, la plastica arrivò dappertutto, persino nello spazio. Nel 1969, la bandiera di Neil Armstrong piantato sulla luna era fatto di nylon. L’anno seguente, La Coca Cola e la Pepsi iniziarono a sostituire le loro bottiglie di vetro con le versioni in plastica prodotte dalla Monsanto Chemical e dalla Standard Oil. “La gerarchia dei materiali è finita: uno solo li ha sostituiti tutti”, ha scritto il filosofo Roland Barthes, nel 1972.
Ma la plastica ha fatto ben più che sostituire i materiali esistenti, lasciando il mondo inalterato. Le sue proprietà uniche – la plastica è allo stesso tempo più malleabile, più facile da lavorare ed anche molto più economica e leggera dei materiali che ha sostituito – hanno effettivamente contribuito al passaggio dell’economia globale verso il consumismo da smaltimento. “La nostra economia enormemente produttiva ci obbliga a rendere il consumo il nostro stile di vita”, ha scritto l’economista Victor Lebow nel 1955. “Abbiamo bisogno di cose da consumare, bruciare, gettare, sostituire e scartare ad un ritmo sempre crescente”.
La plastica si è rivelata il perfetto acceleratore verso questo cambiamento radicale, semplicemente perché è economica e facile da buttar via. Solo un anno prima, nel 1954, Lloyd Stouffer, l’editore della rivista specializzata Modern Plastics, fu deriso dalla stampa quando disse a una conferenza del settore che “il futuro della plastica è nel cestino”. Nel 1963, si rivolse alla stessa conferenza confermando: “Stiamo riempiendo i bidoni della spazzatura, le discariche e gli inceneritori con miliardi di bottiglie di plastica, brocche di plastica, tubi di plastica, confezioni per compresse e imballaggi, sacchetti di plastica e pellicole”, ha dichiarato tutto contento. “Il giorno più felice è stato quando nessuno ha considerato il sacchetto di plastica una cosa sufficientemente utile da non essere buttato via”.
La plastica significava profitto. Come scrisse nel 1969 un ricercatore del Midwest Research Institute, una società di ricerca ingegneristica, “la potente forza motrice che muove lo sviluppo del mercato dei contenitori a perdere è il fatto che per ogni bottiglia a rendere che si vende, se ne potrebbero vendere 20 di plastica usa e getta”. Nel 1965, la Society for the Plastics Industry riferì che la plastica era entrata nel suo 13° anno consecutivo di crescita record.
Ma tutto ciò significava anche spazzatura. Negli Stati Uniti, prima del 1950, gli imballaggi riutilizzabili, come le bottiglie di vetro, avevano un tasso di restituzione che arrivava quasi al 96%. Negli anni ’70, il tasso di recupero dei contenitori era sceso al di sotto del 5%. La facilità di smaltimento significava che un numero in precedenza inimmaginabile di articoli veniva gettato nelle discariche. In una conferenza EPA del 1969 sul crescente problema dei rifiuti, Rolf Eliassen, un consulente scientifico della Casa Bianca, ha affermato che “i costi sociali di raccolta, elaborazione e smaltimento di questi articoli indistruttibili sono enormi”.
Tutto questo provocò un forte contraccolpo nei confronti della cultura dell’usa e getta, e in particolare contro la plastica, proprio come vediamo oggi. Nel 1969, il New York Times riportò che “una valanga di rifiuti e di problemi di smaltimento si sta accumulando intorno alle principali città della nazione creando un’emergenza imminente che ha dei forti parallelismi con quanto accade per l’aria e per l’acqua”. La spazzatura salì ai primi posti nella graduatoria dei problemi ambientali. Nel 1970, due mesi prima della celebrazione della prima Giornata della Terra, il presidente Nixon si lamentava dei “nuovi metodi di imballaggio, usando materiali che non si degradano” e spiegava che “oggi buttiamo quello che fa abbiamo salvato una generazione fa”. New York ha istituito una tassa sulla plastica bottiglie nel 1971, il Congresso ha discusso un divieto per tutti i contenitori non riutilizzabili nel 1973, e lo stato delle Hawaii vietò completamente le bottiglie di plastica nel 1977. La battaglia contro la plastica era cominciata e, in quel momento, sembrava pure che avremmo potuto vincerla.
L’astronauta Buzz Aldrin pianta una bandiera americana di nylon sulla luna nel 1969. Fotografia: Neil Armstrong / AP
Fin dall’inizio, l’industria ha combattuto duramente contro tutta la legislazione che limitava l’uso della plastica. La tassa sulle bottiglie usa e getta della città di New York è stata fatta decadere dalla Corte Suprema dello Stato nello stesso anno in cui è stata istituita, a seguito di una causa intentata dalla Società per l’industria delle materie plastiche che lamentava un trattamento ingiusto; Il divieto delle bottiglie di plastica delle Hawaii è stato rigettato da un tribunale statale nel 1979 dopo una causa simile intentata da un’azienda di bevande; il divieto del Congresso non è mai entrato in vigore a causa delle lobby della plastica che hanno minacciato licenziamenti nel settore manifatturiero.
Dopo aver superato l’attacco legislativo, l’alleanza tra le compagnie petrolifere e chimiche, ed i produttori di bevande e imballaggi, perseguì una strategia su due livelli che sarebbe riuscita disinnescare per una generazione tutte le proteste contro la plastica. La prima parte della strategia consisteva nel trasferire la responsabilità dei rifiuti dalle aziende ai consumatori. Piuttosto che incolpare le aziende che avevano realizzato confezioni usa e getta e, strada facendo, si erano fatte i miliardi, queste stesse aziende hanno cominciato a sostenere che il vero problema era rappresentato dagli individui irresponsabili. Questa argomentazione è stata riassunta da un editoriale del 1965 in un giornale statunitense sugli imballaggi intitolato “Guns Do not Kill People”, che incolpava “i maleducati che sporcano il nostro territorio“ invece dei produttori.
Per contribuire a diffondere questo messaggio, le aziende coinvolte nella plastica e in altri imballaggi usa e getta hanno finanziato gruppi no profit che sottolineavano la responsabilità del consumatore sulla spazzatura. Uno di questi gruppi, Keep America Beautiful (KAB), fondato nel 1953 e finanziato da aziende come Coca-Cola, Pepsi, Dow Chemical e Mobil, ha organizzato centinaia di campagne che si basavano su questo principio. “L’inquinamento comincia dalla gente e la gente può fermarlo “ era lo slogan della Giornata della Terra del 197. KAB ha anche sostenuto comitati e associazioni di cittadini che organizzavano momenti di pulizia collettiva per affrontare quella che venne definita la “vergogna nazionale” dei rifiuti.
Un lavoro per certi veri meritorio, ma verso la metà degli anni ’70, la preoccupazione per i legami che KAB aveva con gli industriali aveva portato gruppi ambientalisti come il Sierra Club e la Izaak Walton League, nonché l’Environmental Protection Agency statunitense, a dimettersi dai loro ruoli consultivi con l’associazione. Nel 1976, i giornali riferirono che Russell Train, il direttore dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti (EPA), diffuse un velenoso memorandum affermando che i sostenitori di KAB stavano lavorando per minare la legislazione anti-inquinamento.
Il principio secondo cui i rifiuti erano un problema del consumatore ottenne un notevole successo. Nel 1988, l’anno in cui la produzione globale di plastica superò quella dell’acciaio, Margaret Thatcher, raccogliendo i rifiuti nel parco di St James per un servizio fotografico, sintetizzò perfettamente la questione. “Non è colpa del governo”, ha detto ai giornalisti. “È colpa delle persone che consapevolmente e sconsideratamente buttano via di tutto”. Nessuna parola di accusa fu pronunciata per chi aveva fabbricato o venduto la plastica.
La seconda strategia del settore per calmierare le preoccupazioni dell’opinione pubblica sull’inquinamento si focalizzò su un’idea relativamente nuova: il riciclaggio domestico. Negli anni ’70, i gruppi ambientalisti e l’EPA stavano esplorando la nuova idea che il riciclaggio – un concetto familiare per oggetti di grandi dimensioni come automobili, macchinari e rottami metallici – potesse essere esteso a tutti i livelli per risolvere il crescente problema dei rifiuti.
Le industrie del confezionamento e delle bibite hanno rapidamente incoraggiato l’idea che il riciclaggio potesse tenere i loro prodotti fuori dalla discarica. Nel 1971, prima che le bottiglie di plastica fossero diffuse, la Coca-Cola Bottling Company finanziò alcuni dei primi depositi del mondo per riciclare i rifiuti domestici, come vetro e alluminio, a New York City.
L’industria della plastica seguì la stessa strada, rilasciando dichiarazioni grandiose sulle potenzialità di riciclo dei loro prodotti. Nel 1988, l’associazione di categoria Society of the Plastics Industry ha fondato il Council for Solid Waste Solutions per promuovere il riciclaggio della plastica nelle città, sostenendo che potrebbero recuperare il 25% delle bottiglie di plastica entro il 1995. Nel 1989, Amoco (ex Standard Oil), Mobil e Dow costituirono la National Polystyrene Recycling Company, che ha rivendicato per il packaging alimentare lo stesso obiettivo del 25%, per il 1995. (Un annuncio Mobil, pubblicato sul Time in quel periodo, sosteneva che il confezionamento di polistirolo era “il capro espiatorio, non il problema” della crisi dei rifiuti – la soluzione era “più riciclaggio”.) Nel 1990, un altro gruppo industriale, l’American Plastics Council, sosteneva che la plastica sarebbe stata “il materiale più riciclato” entro il 2000.
Il problema di queste rosee previsioni è che la plastica è uno dei materiali meno adatti al riciclaggio. Vetro, acciaio e alluminio possono essere fusi e trasformati in un numero quasi infinito di volte per realizzare nuovi prodotti della stessa qualità del primo. La plastica, al contrario, degrada in modo significativo ogni volta che viene riciclata. Una bottiglia di plastica non può essere riciclata per fare una bottiglia di plastica della stessa qualità. Piuttosto, la plastica riciclata può diventare fibre per l’abbigliamento o materiale per mobili, che potrebbero in una terza fase essere utilizzati come riempitivi stradali o isolanti, ma nessuno di questi prodotti è ulteriormente riciclabile. Ogni fase della lavorazione della plastica è una strada a senso unico che porta alla discarica o all’oceano. “Il futuro del riciclaggio delle materie plastiche è ancora un completo mistero”, ha dichiarato l’ingegnere dell’Università del Wisconsin Robert Ham, nel 1992, sottolineando il numero limitato di oggetti che i prodotti di plastica riciclati potrebbero diventare.
Per le aziende che riutilizzando materiali più redditizi, come l’alluminio, il riciclaggio della plastica ha un limitato appeal commerciale. Negli anni ’80, quando divenne evidente che il riciclaggio della plastica non sarebbe diventato un’industria in forte espansione, il settore pubblico intervenne. Il riciclaggio fu ampiamente finanziato dallo Stato e la plastica trasportata via insieme alla raccolta di rifiuti domestici, intanto che l’industria continuava a produrre sempre più plastica. Il membro del Congresso Paul B. Henry, in un’audizione sul riciclaggio dei container nel 1992, spiegava che l’industria delle materie plastiche “afferma di essere un grande sostenitore del riciclaggio”, ma questi “programmi si basano quasi interamente sui sussidi governativi”. In altre parole, toccava al governo pagare tutti i bei discorsi sul riciclaggio delle industrie. Ma la gente era felice perché qualcuno si stava occupando di portare fuori la loro spazzatura. Ancora oggi, alcuni attivisti ambientali parlano del porta a porta come di un “cicloturismo” e dei contenitori per il riciclaggio come di una “scatola magica” che tacita i senesi di colpevolezza dei consumatori ma senza incidere davvero sulla questione.
Negli anni successivi, la produzione di plastica globale è passata da 160 milioni di tonnellate nel 1995 alle attuali 340 milioni di tonnellate. Il tasso di riciclaggio è ancora basso: meno del 10% di tutta la plastica negli Stati Uniti viene riciclata ogni anno. Ma anche se i tassi di riciclaggio raggiungessero livelli miracolosi, la plastica può essere riutilizzata solo per un numero limitato di cose, quindi ci sarà sempre e comunque una maggiore domanda di plastica nuova. Roland Geyer, studioso di ecologia industriale dell’Università della California, il cui rapporto del 2017 “Produzione, uso e destino di tutte le materie plastiche realizzate” è diventato un punto di riferimento per i responsabili politici americani ed europei, mi ha confessato che è “sempre più convinto che il riciclaggio semplicemente non sia una soluzione atta a ridurre la quantità di plastica nel mondo “.
E sebbene l’entusiasmo del pubblico per le campagne anti-plastica sia in parte motivato dalla sensazione che sia un problema più semplice e più risolvibile rispetto al cambiamento climatico, le due questioni sono collegate più strettamente di quanto la maggior parte delle persone riesca a capire. Sette dei dieci più grandi produttori di plastica sono ancora aziende di petrolio e gas naturale: finché continueranno ad estrarre combustibili fossili, avranno un enorme incentivo a produrre plastica. Un rapporto del World Economic Forum del 2016 ha previsto che entro il 2050 il 20% di tutto il petrolio estratto in tutto il mondo sarebbe destinato alla produzione di plastica. “In definitiva, l’inquinamento plastico è la parte visibile e tangibile del cambiamento globale causato dall’uomo”, hanno scritto gli scienziati Johanna Kramm e Martin Wagner in un recente articolo.
Il paradosso della plastica che ci ossessiona è questo: conoscere la portata del problema ci ha spinto ad agire, ma più agiamo, più il problema appare superiore alla nostra portata come tutti gli altri problemi ambientali che non siamo riusciti a risolvere. E l’ostacolo che ci troviamo di fronte è sempre lo stesso: una finanza che non vuole regole, il mondo globalizzato e il nostro stesso modo insostenibile di vivere.
Eppure, la gente vuole e utilizza ancora la plastica. Nonostante le difficoltà, il movimento anti-plastica è diventato forse la campagna ecologica mondiale di maggior successo di questo inizio del secolo. Se i governi rispetteranno i loro impegni e il movimento manterrà il suo slancio, ci saranno conseguente tangibili. “È un grosso problema”, mi ha confessato Steve Zinger, un analista dell’industria chimica della ditta statunitense Wood Mackenzie. “In particolare quest’anno, il sentimento anti-plastica dei consumatori è cresciuto. Le aziende dovranno adattare i loro modelli di business alle nuove realtà dei divieti di uso della plastica”. Anche i produttori di petrolio, osserva Mackenzie, potrebbero dover sostenere delle perdite.
Questo è il lato positivo del paradosso della plastica. Se la plastica è l’emblematico microcosmo di tutti i nostri problemi ambientali, anche le soluzioni, seguendo questa logica, lo saranno. In pochi anni, le prove scientifiche del danno ambientale provocato dalla plastica hanno spinto le persone ad organizzarsi, a fare pressione sui governi per regolamentare l’uso di questo materiale e persino a essere presi in considerazione dalle corporazioni dei combustibili fossili. I clienti chiedevano meno imballaggi al supermercato e nel giro di un anno la BP ha previsto che, entro il 2040, l’industria avrebbe prodotto 2 milioni di barili di petrolio al giorno in meno. La nostra ossessione per la plastica è stata registrata. Nella battaglia molto più ampia sul cambiamento climatico, la questione della plastica potrebbe rivelarsi essere una piccola ma importante vittoria, un modello per l’azione futura.
Ciò significa prendere consapevolezza che le questioni ambientali sono interconnesse: dobbiamo riconoscere che la plastica non è solo un problema isolato che possiamo bandire dalle nostre vite, ma semplicemente il prodotto più visibile di mezzo secolo di consumo sfrenato. Nonostante l’immensità della sfida, Richard Thompson, l’oceanografo che ha coniato il termine microplastica, è ottimista. “In nessun movimento degli ultimi 30 anni abbiamo avuto una convergenza come questa, tra scienziati, imprese e governo”, ha concluso. “C’è una reale possibilità di cominciare a fare quello che è giusto”.
Tratto da The Guardian