La COP30 si apre a Belém tra grandi aspettative e un altrettanto grande carico di contraddizioni. La città amazzonica scelta come simbolo della lotta alla deforestazione e della necessità di proteggere il polmone verde del pianeta si trova infatti al centro di un paradosso evidente: ospitare il summit globale sul clima comporta proprio quelle trasformazioni che mettono a rischio l’equilibrio ambientale che la conferenza dovrebbe difendere.
Belém vive da anni una fragilità ecologica strutturale. Le infrastrutture costruite in fretta per accogliere il summit — dalla nuova autostrada che attraversa una zona protetta alle riqualificazioni urbane realizzate più per impressionare i delegati che per servire la popolazione — mostrano una città che si presenta come capitale mondiale dell’ambiente mentre sacrifica porzioni del proprio territorio per farlo. Non sorprende, allora, che associazioni e movimenti locali denuncino da mesi un peggioramento della situazione ambientale: il manto arboreo urbano continua a ridursi, mentre il sistema fognario resta gravemente insufficiente e gran parte delle acque reflue finisce ancora direttamente nei corsi d’acqua.
La COP, che dovrebbe essere un luogo di partecipazione globale, rischia inoltre di trasformarsi in un evento elitario. I posti letto disponibili non sono sufficienti per accogliere i partecipanti annunciati e i prezzi degli alloggi hanno raggiunto livelli proibitivi. Delegazioni dei Paesi più poveri, comunità indigene e realtà del Sud globale — quelle che più subiscono le conseguenze della crisi climatica e che dovrebbero avere voce centrale nei negoziati — potrebbero ritrovarsi marginalizzate per ragioni puramente economiche. Nelle grandi conferenze internazionali esiste sempre il rischio che chi ha meno risorse finisca ai margini; a Belém questo rischio sembra ancora più evidente.
Le comunità indigene dell’Amazzonia, custodi storiche del territorio, denunciano inoltre che la COP rischia di concentrarsi sulle vetrine diplomatiche piuttosto che sulle loro reali esigenze. L’espansione di attività estrattive illegali, come l’estrazione aurifera in vaste aree dello Stato del Pará, continua a minacciare ecosistemi e diritti fondamentali. A pochi chilometri dalle sedi dei negoziati, migliaia di garimpeiros operano indisturbati in territori dove la protezione dovrebbe essere massima. Un contrasto che dice molto sulla distanza tra gli impegni proclamati e la realtà vissuta nelle comunità amazzoniche.
Molti dei progetti sbandierati come “eredità positiva” del summit appaiono più come operazioni di greenwashing che come veri interventi strutturali. Gli alberi finti installati in alcune zone della città, simbolo di un’estetica ambientale costruita a tavolino, sono diventati una metafora perfetta di questo approccio: più immagine che sostanza. Anche altre opere, presentate come investimenti strategici per il futuro, rischiano di rivelarsi incomplete, inutilizzate o palesemente disconnesse dalle necessità reali degli abitanti, soprattutto nelle periferie più povere.
Intanto, mentre i leader mondiali si preparano a discutere ancora una volta di obiettivi climatici disattesi, il segretario generale dell’ONU, António Guterres. ha già definito il mancato rispetto del limite di 1,5 gradi come un “fallimento morale”. Per molti osservatori, questa COP potrebbe essere l’ultima occasione per imprimere una svolta reale alle politiche climatiche. Ma se il contesto che la ospita riflette così tante criticità, è lecito chiedersi se i risultati che usciranno dai negoziati saranno all’altezza dell’urgenza.
Belém, con la sua storia complessa, le sue contraddizioni ambientali e sociali e il peso simbolico dell’Amazzonia, offre uno specchio realistico dello stato della politica climatica globale: grandi annunci, aspettative immense, ma un divario crescente tra ciò che si promette e ciò che si realizza. Per questo il compito dei movimenti ambientalisti, locali e internazionali, sarà fondamentale: raccontare ciò che avviene dietro le quinte, dare voce alle comunità escluse, chiedere trasparenza e responsabilità.
Una COP nella foresta può essere un potente messaggio al mondo solo se accompagnata da scelte reali, misurabili, coraggiose. Altrimenti resterà un’enorme operazione scenografica, destinata a spegnersi nel momento in cui le delegazioni lasceranno Belém. Buone fotografie per i giornali, nessun cambiamento per la foresta e per il pianeta.
EcoMagazine Osservatorio sui conflitti ambientali