Maniero e company furono condannati per associazione di tipo mafioso con sentenze confermate dalla Cassazione, ma da un po’ di tempo circola uno slogan che assomiglia agli spot pubblicitari che la televisione ci somministra giornalmente: il Veneto non è terra di mafia ma è terra che piace alla mafia. La prima parte – sostiene il professor Guidotto – va bene, anche se non tiene conto dei verdetti definitivi riguardanti quella mafia autenticamente autoctona. Ma la seconda? Siamo proprio sicuri la mafia non sia mai piaciuta anche ad insospettabili personaggi nostrani? E relativamente a vicende più recenti è giusto parlare solo di infiltrazioni nel nostro territorio di appartenenti alle tradizionali organizzazioni del Sud? R fa una citazzione. Qui «le mafie sono arrivate perché qualcuno le ha cercate e le ha chiamate» sostengono Ugo Dinello, Luana De Francisco e Giampiero Rossi, autori di Mafia a Nord-Est, il libro appena pubblicato che, secondo il commento dei quotidiani del ‘Gruppo Espresso Repubblica’, «serve a svelare una realtà che è ben diversa, in cui molti mafiosi si vedono inseguiti, prima che da poliziotti e carabinieri, da frotte di imprenditori che vogliono entrare in affari con loro». E con i reati contro la Pubblica Amministrazione come la mettiamo? Nell’ultimo anno giudiziario, i casi di corruzione sono triplicati: da 31 a 122; e quelli di concussione – molto più grave, con punte massime nel Veneziano e nel Veronese – passando da 27 a 45, sono quali raddoppiati. Paolo Borsellino diceva sempre che «la corruzione è l’anticamera della mafia».
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Professor Enzo Guidotto, la volta scorsa con la Banda Maniero eravamo quasi arrivati alla metà anni Ottanta.
Ok, partiamo da alcune frasi del libro “Il bandito Felice Maniero” che Le aveva dato lo spunto per la prima domanda: Maurizio Dianese scrive che «il vero salto di qualità avviene tra l’84 e l’86. Nel giro di pochissimo tempo la banda di rapinatori in erba si trasforma in una holding del crimine che controlla la droga, che ha una quota azionaria nei sequestri di persona, una ventina, messi a segno da una banda di giostrai, che gestisce il racket delle estorsioni e dei prestiti a strozzo, che ha già assunto il controllo dei cambisti del Casinò di Venezia e degli uffici fidi di Portorose e Umago, che, infine, impara a reinvestire i soldi in attività lecite. E ad ammazzare».
Così andarono le cose, ma, probabilmente già allora, alla luce del più ampio contesto prima illustrato, Maniero comincia anche a pensare di coinvolgere appartenenti alle istituzioni. Di fatto – fece presente il giudice Pavone proprio nella citata introduzione di quel libro che fu pubblicato nel 1995 – con il suo gruppo, «ha saputo garantirsi negli anni anche compiacenti connivenze che gli hanno permesso di passare indenne attraverso le inchieste giudiziarie». E infatti, nel corso dell’intera vicenda, non sono mancati arresti e condanne, a seconda dei casi, di appartenenti alle forze dell’ordine, di agenti di custodia carceraria e di 007. Un magistrato in servizio Venezia fu denunciato ma la fece franca, mentre a Roma furono arrestati un giudice di sorveglianza e il direttore di un carcere che avevano favorito un detenuto, appartenente alla Banda Maniero .
Ma, comunque siano andate le cose, “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”: nella primavera dell’87 cominciano gli arresti, poi si svolgono i processi ed infine arrivano le sentenze di condanna che vengono confermate in Cassazione. Reato più grave quello previsto dell’articolo 416bis del codice penale utilizzato sin dal primo blitz ma ipotizzato in precedenza, quando fu avviata l’istruttoria, soltanto dal dottor Francesco Saverio Pavone.
Solo da lui? E gli altri?
“Relata refero”: nel capitolo dedicato al Veneto del libro “Le mafie del Nord” contenente inchieste sociologiche coordinate dal professor Rocco Sciarrone dell’Università di Torino viene citata la dichiarazione di un ex ufficiale della Direzione Investigativa Antimafia: «La magistratura veneziana non ha mai voluto applicare il 416bis per non turbare gli equilibri economici e i sonni tranquilli degli imprenditori. Diverse le indagini che sarebbe stato bene approfondire ma non si è voluto fare». Ad esempio quella su «Ciro Cardo [parente dei Licciardi, potente famiglia camorristica con affiliati presenti, nel tempo, dal Veronese fino al confine con il Friuli, nda] sull’usura nel lago di Garda o sulle multiproprietà a Cortina negli anni Novanta in cui erano coinvolti dei politici. Solo nel caso Maniero si è applicato il 416bis perché c’era un magistrato, Pavone, che è un battitore libero e che si è scontrato con la procura veneziana, contraria».
Possibile?
Certo: addirittura era stato preso da colleghi per «visionario»: «La mafia nel Veneto? Fino a qualche anno fa, anche fra gli addetti ai lavori – ha scritto il magistrato in apertura dell’introduzione del libro di Dianese – si coglieva ben più che scetticismo quando si accennava a una lèttura … “mafiosa” dei fenomeni criminali locali. I più benevoli parlavano di forzatura, tutti gli altri di stupidaggine allo stato puro».
E invece, con l’imprimatur definitivo della Suprema Corte, la “Mala del Brenta”, diventò “Mafia del Brenta” e tale è da ritenere dal punto di vista giuridico o giudiziario che dir si voglia. Che poi sotto l’aspetto sociologico o fenomenologico questo tipo di mafia veneta sia rimasta sempre diversa da Cosa Nostra in Sicilia, dalla Ndrangheta in Calabria e dalla Camorra in Campania, non ci sono dubbi.
Chiarissimo. Il guaio è però che tanti, nel denominarla, continuano ad usare la prima espressione, “Mala del Brenta”….
Si, per addossare la colpa della sua degenerazione esclusivamente ai soggiornanti obbligati quasi nel tentativo di dare ad intendere che Felicetto, prima del… “contagio”, fosse una specie di immacolato ed ingenuo chierichetto alle loro dipendenze. Cosa, questa che lui stesso, con cinico orgoglio criminale, ha ripetutamente tenuto ad escludere: «La collaborazione c’è stata, ma qui comandavo solo io!» ha sempre dichiarato.
C’è poco, dunque, da discutere: la sua banda è stata l’unica organizzazione autoctona – cioè formata da soggetti nati e cresciuti in Veneto – che si è formata nelle regioni del Centronord ad assumere quella precisa configurazione giuridica: associazione di tipo mafioso. D’altra parte, come ho detto prima, l’applicazione della legge che la prevede si basa sui comportamenti che sono stati assunti dagli imputati, non dalle ispirazioni, dai consigli o dai suggerimenti che arrivano dall’esterno del gruppo.
Ma cosa risponderebbe per tappare la bocca a chi insiste nel dire che la Banda Maniero “deviò” esclusivamente per le “lezioni” di veri e propri maestri del crimine?
Cosa risponderei? Che anche nelle migliori scuole, i più qualificati insegnanti non riescono a fare granché se non si trovano alle prese con bravi allievi. In tutti i casi, prima e dopo la vicenda della Banda Maniero, di bravi maestri ce ne erano stati molti di più altrove, ma in nessuna altra regione del Centronord si è mai formata un’organizzazione uguale, simile o analoga, cioè autoctona, formata da soggetti nati e cresciuti ‘in loco’. E nemmeno in altre province del Veneto o in altra zona della stessa provincia di Venezia. Da circa 40 anni esiste una interessante analisi del problema….
Quale con precisione?
Si tratta di uno studio realizzato per confrontare lo sviluppo della criminalità organizzata in alcune zone del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna – condotto da una èquipe di specialisti del settore su incarico della Provincia di Venezia – i cui risultati furono resi di pubblico dominio nel maggio del 1987, proprio nei giorni successivi all’emissione dei primi mandati di cattura, quaranta in tutto, per associazione di stampo mafioso nei confronti di Felice Maniero e degli appartenenti alla sua banda. «Abbiamo raccolto – spiegò all’epoca il presidente della Provincia Orlando Minchio che aveva partecipato personalmente alla realizzazione della ricerca – dati sufficienti per cercare di capire perché la mafia si è installata in Riviera. Questa è un’area fertile per la criminalità organizzata» per la presenza di «tutte le condizioni necessarie per svilupparsi fino al punto di cambiare il modo di vivere della gente della zona»: «se un mafioso o un camorrista viene inviato al soggiorno obbligato a Cavarzere o a Portogruaro non succede nulla. Quelli spediti qui, invece, hanno fatto attecchire il seme mafioso». L’allusione, ovviamente, era rivolta alla malavita endemica locale. E mi pare che questa conclusione tagli la testa al toro.
Le cause del fenomeno sono pertanto più antiche di quanto si vorrebbe far credere perché vanno ricercate nell’influenza esercitata sulle “giovani leve” non soltanto dai soggiornanti obbligati, ma anche da quei vecchi malavitosi locali che, offrendo modelli di comportamento non sempre adeguatamente censurati e contrastati attraverso incisive iniziative di carattere sia repressivo che culturale ed educativo, avevano creato nella zona una certa predisposizione ambientale.
Sia pure in tempi diversi il ruolo di “maestri del crimine” , è stato quindi svolto sia dagli uni che dagli altri. A un certo punto i soggiornanti obbligati – inizialmente a causa della disattenzione generale e successivamente per la sottovalutazione dei primi allarmi da parte dell’opinione pubblica e dei pubblici poteri – sono stati le “persone giuste” che nel “momento giusto” del decollo del traffico e dello spaccio di stupefacenti e nella “zona giusta”, toccata dalla prosperità, sono stati determinanti per l’avvio delle attività delittuose che hanno fatto compiere ad altre “persone giuste” della delinquenza locale un vero e proprio “salto di qualità”.
Da quella ricerca era emersa qualche indicazione per il superamento del fenomeno?
«Una società civile unita – spiegò il presidente della Provincia – respinge da sé la criminalità» e fu positiva in tal senso la costituzione di parte civile di tutti i Comuni della Riviera nel processo svoltosi tra il 1993 e il 1994. A distanza di meno di un anno, però, la presa di posizione unitaria sul fronte giudiziario non corrisponde altrettanta compattezza quando arrivò il momento di parlare pubblicamente della vicenda Maniero inserita all’interno dello scenario sociale ed economico e nel contesto culturale che l’avevano resa possibile. La contraddizione esplode nel marzo del 1995, proprio in occasione della pubblicazione del libro di Maurizio Dianese da Lei citato all’inizio. Alla proposta di presentarlo a Campolongo Maggiore, paese natìo del “bandito”, l’Amministrazione Comunale oppone un netto rifiuto.
Fatti, dunque, non opinioni!
Effettivamente, l’analisi è abbastanza convincente: altro che contagio!
Il “seme” germoglia non sulla roccia nuda ma nel terreno fertile, specialmente se ben coltivato. Parlando di contagio si vuol dare invece ad intendere che la zona interessata, quanto a delinquenza e criminalità, era immune, incontaminata: sarebbe stata inquinata dai soggiornanti obbligati… Mi pare di averlo già detto: per certa gente, lo sporco, in Veneto, viene solo da fuori dai confini regionali e per evitarlo basterebbe innalzare barriere protettive lungo il Po.
Ma questa tendenza si manifesta anche di fronte fenomeni recenti ed attuali a mio parere ben più gravi, riguardanti i tentativi più o meno riusciti di riciclaggio e investimento di capitali sporchi, traffico di rifiuti e accaparramento di appalti pubblici: si parla prevalentemente – ed a volte esclusivamente – di “infiltrazioni”. E in tutti i casi si fa finta di non sapere che certi imprenditori veneti, sia in Veneto che in regioni del Sud, ne hanno fatto di cotte e di crude in combutta con imprenditori mafiosi o al di sotto di tanti sospetti o con loro prestanome. E che altri imprenditori veneti hanno imitato certi comportamenti, come risulta dall’inchiesta della DDA di Venezia, prossima alla richiesta di rinvio a giudizio, sulla ‘sepoltura’ di rifiuti velenosi sotto il manto stradale della ‘Valdastico sud’.
E purtroppo la stampa locale parla poco di queste cose …
Si, ma c’è anche chi non ne parla affatto.
Chi ad esempio?
Nei mesi scorsi sono stati pubblicati dalla Regione e dall’Unioncamere – attenzione: non in cartaceo ma in siti internet e in PDF – i risultati delle attività di ricerca e/o di sensibilizzazione sul fenomeno svolte in collaborazione, rispettivamente, con ‘Libera’ e ‘Avviso Pubblico’: di quelle categorie di imprenditori veneti non c’è traccia. Probabilmente i due enti si sono preoccupati di salvaguardare l’immagine della regione e della classe imprenditoriale locale. Non è stato sostenuto che quei casi non ci sono: non sono stati considerati. Quindi chi legge quei rapporti è portato a pensare che dentro ci sia tutto e quindi quei fatti non esistono. E magari è portato a pensare che quanti ne parlano e ne scrivono – come gli autori del libro “Mafia a Nord-Est” – denigrano il Veneto e la classe imprenditoriale veneta. Strano che l’impostazione delle attività dei due enti, così come è presentata nei due rapporti, sia stata condivisa dalle associazioni collaboratrici. Qui «le mafie sono arrivate perché qualcuno le ha cercate e le ha chiamate» sostengono Ugo Dinello, Luana De Francisco e Giampiero Rossi in quel libro appena pubblicato che, secondo il commento dei quotidiani del ‘Gruppo Espresso Repubblica’, «serve a svelare una realtà che è ben diversa, in cui molti mafiosi si vedono inseguiti, prima che da poliziotti e carabinieri, da frotte di imprenditori che vogliono entrare in affari con loro». Fatti, non chiacchiere!
Penso che questa problematica meriti un approfondito discorso a parte. Cosa può dirmi in conclusione?
Che «l’intellettuale – come diceva Leonardo Sciascia – non deve ungere ma pungere». Per questo condivido pienamente le valutazioni che fa da anni il professor Rocco Sciarrone, del quale ‘Ecomagazine’ ha pubblicato delle interviste. Prima: «Sottovalutazioni e negazioni sono fattori che hanno favorito storicamente l’espansione delle mafie in aree non tradizionali». Seconda: «La metafora del contagio asseconda letture semplicistiche e fuorvianti del fenomeno mafioso, ritenendo i meridionali tutti responsabili dell’infezione mafiosa; al tempo stesso ritiene sana la società ricevente, quindi vittima e non responsabile del contagio. Una metafora che ha facile presa sull’opinione pubblica, ma non coglie il punto cruciale della questione, finendo per fornire comodi alibi. Se anche si volesse parlare di contagio, sarebbe necessario focalizzare l’attenzione sul “terreno” in cui l’infezione si sviluppa e quindi sulle condizioni del contesto che la favoriscono». Terza: diventa piuttosto secondario persino il dibattuto problema della scelta della parola più adatta per indicare la dinamica dell’espansione delle varie organizzazioni nel Centronord: esportazione, trapianto, infiltrazione, radicamento, clonazione, contagio, imitazione o ibridazione della mafia originaria. «Contano molto più – è stata la sua conclusione – l’ “accoglienza” e l’ “ospitalità” ricevute nel contesto di arrivo. Dal canto loro, le mafie si adattano al nuovo ambiente, adeguando regole, strutture organizzative e campi di attività».
E con i reati contro la Pubblica Amministrazione come la mettiamo? Ci sono nessi fra mafia e corruzione?
«La corruzione è l’anticamera della mafia» diceva sempre Paolo Borsellino. E in Veneto, nell’ultimo anno giudiziario, rispetto al precedente, i casi di corruzione sono triplicati passando da 31 a 122, mentre quelli di concussione – reato molto più grave – da 27 sono diventati 45: quasi raddoppiati. Le province a più alta densità sono quelle di Venezia e di Verona. «In medio stat virtus» ? «Così è se vi pare» diceva Luigi Pirandello, ma anche se così non pare, almeno fino ad oggi le cose stanno proprio così.
La parte precedente di questa lunga intervista è consultabile a questo link
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