Senza la presenza di soggiornanti obbligati ‘in loco’, la “mala del Brenta” sarebbe diventata “mafia del Brenta”? Senza di loro – secondo il professor Enzo Guidotto – Maniero e company avrebbero fatto comunque il salto di qualità collegandosi con altri boss nelle regioni vicine, Lombardia soprattutto. E poi, fra la seconda metà degli anni ’70 e la prima parte degli ’80, il clima di impunità che aleggiava attorno ai responsabili di grandi delitti commessi sia nel Sud che al Nord, non poteva non suggestionare criminali in carriera al punto di spingerli all’imitazione di certi metodi. Non sono inoltre trascurare i modelli di comportamento locali: il padre e uno zio di Felicetto avevano fatto parte della banda capeggiata da Adriano Toninato, attivo per circa trent’anni dal ’29 al ’58.
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In precedenza, con il professor Enzo Guidotto, eravamo rimasti al tentativo di ricostituzione di un’organizzazione malavitosa nell’area del Brenta da parte di vecchi seguaci di Felicetto alleati con nuove leve. Ma la Banda Maniero – gli chiediamo ora – va chiamata “mala” o “mafia” ? Come mai tanti continuano a chiamarla “Mala del Brenta”.
Tanti dicono “mala” in buona fede parlando dei… “primordi”, altri in malafede con riferimento a tutta la vicenda. In verità, la risposta dipende dalla fase in cui operò. In tutti i casi, per il passaggio dalla prima alla seconda non parlerei di “contagio” mafioso perché fa pensare a una malattia trasmessa da un corpo malato ad un corpo sano. Proprio nell’introduzione del libro di Maurizio Dianese, “Il bandito Felice Maniero”, da Lei citato all’inizio, il dottor Francesco Saverio Pavone, che per primo – e non senza critiche da parte di colleghi – colse la corretta configurazione giuridica dell’organizzazione, diede una spiegazione ben chiara e precisa: come fenomeno generale, la mafia «ha fornito gli esempi da imitare» ma relativamente alla Banda Maniero «non stiamo parlando di pura e semplice esportazione della mafia, che si espande facendo affiliati a New York piuttosto che a Milano, a Roma o in Canada, ma di associazioni per delinquere che entrano in contatto con la mafia e non si limitano a concludere affari con i mafiosi, ma ne copiano i metodi». D’altra parte, «con l’espressione “associazione per delinquere di stampo mafioso” il legislatore ha voluto “coprire” proprio le associazioni per delinquere che hanno certe caratteristiche, tipiche dell’associazione mafiosa, quali che siano i contesti storici e geografici nei quali questa associazione agisce». La legge, che ha integrato il Codice Penale all’articolo 416bis, parla infatti di associazioni comunque localmente denominate.
“Mafia del Brenta”, dunque…
Si, ma stiamo ai fatti valutandoli in base ai due parametri indicati dal dottor Pavone: “esempi imitati” e “metodi copiati”. L’influenza dei mafiosi in soggiorno obbligato sulla banda ci fu sicuramente, ma non nel senso che fu imposta da vincitori a vinti dopo a conclusione di un… “conflitto ambientale”, per usare una certa espressione: si trattò più che altro della naturale conseguenza di una … attrazione fatale in funzione di interessi reciproci – tra criminali, sia pure di differente matrice, caratura ed esperienza – che sfociò presto in una conveniente collaborazione soprattutto nel campo del traffico di stupefacenti: fu questo il “collante” al quale, però, col tempo se ne aggiunsero altri. I «mafiosi in trasferta» costituivano già da tempo una vera e propria “rete”, presente su tutto il territorio nazionale, che consentiva la collocazione sul mercato della droga attraverso la malavita locale, ben disposta ad inserirsi nel giro: dal 1961 al 1972 si contarono ben 2360 soggiornanti obbligati dislocati soprattutto nel Centronord.
Veneto compreso?
Si, con 143 unità: sembrano tanti, ma corrispondevano a poco più del 6 per cento. In Lombardia ne arrivarono ben 372, in Emilia 246, in Toscana 228 e 207 in Piemonte. Nel 1972 Felicetto aveva appena 18 anni e anche gli altri capetti dei gruppi emergenti che si aggregarono in quel periodo sotto la sua direzione erano minorenni – dato che la legge sulla maggiore età a 21 anni è stata emanata nel 1975 – ma avevano già alle spalle una certa carriera nel campo della criminalità predatoria, maturata in una zona tradizionalmente caratterizzata da malavita endemica, operante prevalentemente in quel settore: basta pensare che il padre e lo zio di Felice Maniero avevano fatto parte della banda capeggiata dal “leggendario” Adriano Toninato, attivo dal 1929 al 1958. Il che è quanto dire. C’è stata continuità. Ricordo ad esempio che quando arrivai qui in Veneto, nel 1967, la gente diceva: «Si, lu el parla de mafia, ma qua ghe xè anca i nostri : ghe xè paesi dove j pianta fasjòi co a sciòpa e j vien su briganti».
Maniero come Toninato?
I tempi erano diversi. In un ambiente prettamente rurale, Toninato si dedicava soprattutto alle rapine ai danni di allevatori di bestiame. Ma ci sono state altre differenze … Qualche anno fa, in un’intervista a Nicoletta Masetto per il ‘Messaggero di Sant’Antonio’, Maniero ha ribadito di aver «comandato circa trecento persone» e «posso assicurarvi – ha tenuto a precisare – che l’unico che ha veramente guadagnato soldi sono stato io. Tutti gli altri, compresi “bracci destri e sinistri”, dopo aver patito dieci, quindici anni di galera, oggi sono senza una lira, vecchi, distrutti e disperati». Anche Toninato fu sempre il capo assoluto. Ma, quanto a schèi e potere, da latitante quasi ininterrottamente per circa trent’anni, era stato più… “democratico”: nel 1953 divise in due parti la banda ed assegnò a dei luogotenenti la competenza territoriale: uno per la zona a nord di Venezia, l’altro per quella a sud, fino a Monselice. Il primo, Mario Bosso, con i proventi riuscì a costruirsi una villa e ad addobbarla in modo lussuoso ma anche ad acquistare uno stabile a Mestre intestandolo alla moglie. Dunque, circa sessant’anni fa, un classico esempio dei tre livelli dell’ economia mafiosa dei nostri giorni: acquisizione, riciclaggio e investimento nel settore legale di capitali derivanti da attività illecite.
E dopo il 1972 cosa succede?
Per l’intrecciarsi delle situazioni, la precisa ricostruzione degli eventi non è cosa facile, né utile. Diciamo che attorno alla metà degli anni Settanta cambia lo scenario: Maniero diventa leader e un po’ alla volta con la sua banda intensifica le attività già collaudate – compresa quella delle bische clandestine – e si dà ad una serie di ben organizzate rapine ai danni di imprenditori del settore orafo. Nel frattempo nel Veneziano e nel Padovano arrivano in soggiorno obbligato, provenienti dalla Sicilia e dalla Calabria, altri personaggi «esperti e pericolosi pregiudicati», come li definì il dottor Pavone. In precedenza, dal 1961 al 1972, nelle due province ce n’erano stati, rispettivamente, 17 e 25. Poi, a quanto pare, ne giungono anche dalla Campania. Dunque, propaggini di Cosa Nostra, Ndrangheta e Camorra.
Le rapine molto più eclatanti e lucrose delle precedenti, la Banda Maniero continua però a compierle per conto suo anche successivamente: basta pensare che dal luglio del 1982 al maggio di due anni dopo le consentono di accumulare un bottino che supera gli undici miliardi di vecchie lire: vengono presi di mira l’Hotel des Bains, le Poste di Mestre, l’Aeroporto Marco Polo e il Casinò di Venezia.
Intanto si verifica l’alleanza con un gruppo di giostrai e a un certo punto Felicetto e company, attorno alla metà degli anni Ottanta, hanno tutti i numeri da giocare per il “decollo” e ci riescono sfruttando i rapporti con quei soggiornanti obbligati di elevato spessore criminale che gli permettono di cavalcare il business più allettante e remunerativo del momento, la droga, peraltro – almeno inizialmente – meno pericoloso delle attività precedenti.
Meno pericoloso in che senso?
In genere, le rapine colpiscono l’opinione pubblica, creano allarme sociale e pongono il rischio di lasciarci la pelle per possibili conflitti a fuoco con tutori dell’ordine. Invece i traffici di stupefacenti – ovviamente fino a un certo punto – si svolgono in sordina e il conseguente riciclaggio e l’investimento dei relativi proventi risultano pressoché “invisibili” agli occhi dell’una e degli altri. Se però pensiamo a quel discorso della copiatura di metodi e dell’ imitazione di esempi della quale parlavo prima, non si può escludere l’ipotesi che l’escalation da “mala” in “mafia” potesse avvenire anche senza la collaborazione di quei soggiornanti obbligati, che si rivelò comunque utile ed inevitabile essendo presenti ‘in loco’.
In che senso? Cosa vuol dire?
Che se non ci fossero stati loro, Maniero sarebbe andato sicuramente a cercare la droga altrove, dove avrebbe sicuramente trovato modelli di comportamento uguali o analoghi da seguire. D’altra parte, in tutto il Paese la malavita locale si interessò del traffico e dello spaccio di stupefacenti forniti dai boss con obbligo di soggiorno dappertutto.
Questa però è solo un’opinione …
Beh! Non proprio… Badiamo sempre ai fatti e ragioniamo a rigore di logica. Negli anni Settanta ed in quelli immediatamente successivi, televisione e carta stampata davano grandissimo risalto ad eventi che andavano sviluppandosi non soltanto nel Sud, ma anche nelle vicine regioni del Nord. Non so se Maniero seguisse assiduamente giornali e telegiornali, ma nelle varie occasioni certe vicende erano sulla bocca di tutti.
Di cosa si trattava? E quali erano le regioni più inquinate?
Quelle citate prima. Alcuni esempi concreti rendono chiara l’idea. Già nei primi anni Settanta, Luciano Liggio, capo dei Corleonesi Riina e Provenzano, si era stabilito a Milano, dove sotto falso nome ed attraverso prestanome commerciava vini gestendo due enoteche, ma organizzava soprattutto sequestri di persona con collaboratori ben addestrati ed imboscava ingenti somme di denaro in banche milanesi e svizzere. “Cassiere” della banda era un nipote di Frank Coppola, il mafioso italoamericano, espulso come “indesiderabile” dagli Stati Uniti, ma… “titolare” di grandi amicizie in politica e nella magistratura: quell’ Agostino Coppola, sacerdote, che nell’aprile del ‘74 celebrò le nozze clandestine di Totò Riina con Antonietta Bagarella che trascorsero la luna di miele in giro per l’Italia con tappe a Venezia – dove il boss si fece fotografare tenendo in mano una colomba – e nel capoluogo lombardo. In quella regione, di sequestri di persona ce ne furono tre nel ’73, dodici nel ’74, tredici nel ’75, per arrivare poi al picco di trentadue nel ’77.
Inoltre, è bene sapere che proprio in quegli anni, la “capitale del riciclaggio” non era più Palermo ma Milano: alcuni clan di Cosa Nostra versarono soldi sporchi nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, altri in banche che facevano capo a Michele Sindona, finanziatore di partiti a livello nazionale, e piazzarono Vittorio Mangano nella Villa di Arcore di Silvio Berlusconi, il quale – secondo quanto hanno raccontato non pochi “pentiti” agli inquirenti – ricevette dalla mafia a mò d’investimento ingenti capitali. Altri flussi di denaro passarono per la Banca Rasini, dove il padre Luigi era molto influente.
Il 1979 è l’anno più terribile sia al Nord che in Sicilia. In luglio, a Milano, Michele Sindona – che persino durante la latitanza fu aiutato in qualche modo da Giulio Andreotti, presidente del Consiglio dei Ministri in carica – aveva fatto eliminare da un killer l’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore di una sua banca su incarico della Banca d’Italia. A Palermo furono uccisi, il capo della Squadra Mobile Boris Giuliano a distanza di qualche settimana, e in settembre, mentre lo stesso Sindona si nascondeva in Sicilia – protetto da mafiosi e massoni, ma anche da mafiosi massoni al tempo stesso – il capo in pectore dell’Ufficio Istruzione del Tribunale Cesare Terranova assieme al maresciallo di Polizia Lenin Mancuso. Da lì a poco, il 6 gennaio del 1980 fu eliminato il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. In maggio il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile e qualche anno dopo il suo successore Mario D’Aleo: entrambi, come Boris Giuliano, si erano interessati di riciclaggio di capitali mafiosi fra la Sicilia, la Lombardia e gli Stati Uniti.
Poi, nella primavera del 1982, sempre a Palermo viene eliminato l’on. Pio La Torre, presentatore del progetto della prima vera legge antimafia che cominciò a consentire l’aggressione ai patrimoni mafiosi, approvata quattro mesi dopo, all’indomani dell’omicidio del generale-prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, e nell’estate dell’anno dopo ci fu l’uccisione del giudice Rocco Chinnici, capufficio di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone: in conferenze e convegni aveva insistito che la mafia si era fatta imprenditrice. Nel frattempo a Londra era stato “suicidato” Roberto Calvi.
In quel periodo, inoltre, in Liguria, Valle d’Aosta, Lombardia e Veneto si svilupparono inchieste sul riciclaggio del denaro nei Casinò di Sanremo, Saint-Vincent e Campione e magistrati che le guidarono finirono nel mirino: il Pretore di Aosta, Giovanni Selis, nell’82 subì un attentato e un altro tentativo si registrò dopo alcuni mesi; nell’anno successivo fu ucciso il Procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia e nel corso delle indagini due suoi sostituti dovettero rendere conto del loro operato. La squadra di mandanti ed esecutori del delitto – dichiarò poi uno dei magistrati inquirenti – «era guidata con intelligenza e spirito moderno: aveva cioè buoni rapporti con la magistratura».
Sempre nell’83, a Trapani, fu ucciso il magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto e nell’85 si verificò l’attentato al sostituto procuratore Carlo Palermo, che lo aveva sostituito, il quale, in precedenza, a Trento, aveva diretto un’inchiesta – che gli fu strappata ed assegnata ad altra sede – su un colossale giro internazionale di armi prodotte in Italia e droga proveniente dal Medioriente e conseguente riciclaggio di denaro. E quattro mesi dopo a Palermo, nel giro di una settimana, finiscono sotto il piombo mafioso il commissario di polizia Giuseppe Montana e il vicequestore Ninni Cassarà assieme all’agente Roberto Antiochia.
Nello stesso periodo in cui rientrano queste ultime vicende in varie province del Veneto, era stato registrato un lungo elenco di sequestri di persona: Gino Isoli (Padova, 1981), Alessandro Cardi (Verona, 1981), Antonio Piarotto (Venezia, 1981), Maria Berico Melchiorello (Vicenza, 1981). Tentativi di sequestro furono invece quelli che riguardarono Dante Ferroli (Verona, 1982) e Gianluigi Baggio (Padova, 1982). Mentre Livio Bernardi e Pietro Berto (Vicenza, 1982 e 1983) e Bruno Adami (Mantova, 1983) non tornarono a casa.
E già: fatti gravissimi che la gente, purtroppo, non ricorda più… Ma Maniero che c’entra?
Nei casi che ho ricordato erano stati colpiti appartenenti alle istituzioni che avevano svolto azioni di contrasto di organizzazioni mafiose che svolgevano attività illecite ed imboscavano, riciclavano ed investivano capitali e non solo a livello nazionale. Ma gli esecutori non sempre finivano dietro le sbarre in tempo brevi. I mandanti veri quasi mai. E l’alone di impunità che avvolgeva i responsabili di tanti gravi delitti, a mio avviso, non poteva non suggestionare delinquenti spregiudicati e in carriera: in altri termini, sul piano psicologico, penso che quell’andazzo incoraggiasse quanti avevano la tendenza a far tutto ciò che volevano con l’arrogante pretesa di non rendere conto a nessuno.
Effettivamente, queste considerazioni offrono spunti di riflessione di non poco conto…
Proprio così: quanto meno spunti di riflessione. Verso la metà degli anni Ottanta era questo il “clima”, caratterizzato da metodi da seguire ed esempi da imitare molto allettanti, nel quale ebbe inizio la fase decisiva dell’escalation della Banda Maniero. In Veneto, metodi ed esempi del genere, a parte i sequestri di persona, non ce n’erano stati, se si escludono quelli meno gravi dei soggiornanti obbligati. Ecco perché, secondo il mio parere, per la “mutazione” da “mala” a “mafia” del Brenta, influirono sia il “libero apprendimento” di Felicetto, derivante dalla lettura – o comunque dalla conoscenza anche attraverso radio e televisione – di certi avvenimenti geograficamente lontani, sia la “cultura mafiosa” della quale erano portatori i boss obbligati a soggiornare ‘in loco’ ma appartenenti alle stesse organizzazioni alle quali erano affiliati anche quelli che operavano sia liberamente che da sorvegliati speciali in “madrepatria” e nelle altre parti del Nord. Ecco perché non bisogna parlare di “contagio” ma di vera e propria “imitazione”, cioè di comportamenti assunti per libera scelta seguendo esempi e metodi mafiosi poi sviluppati grazie a capacità potenziali ed esperienze già fatte con iniziative meno impegnative. Altro che storie!
Suggestione ed imitazione, dunque?
Proprio così. Non si può ignorare che spesso tanti, di qualsiasi età, nella visione di certi film o fiction televisive, anche senza rendersene nemmeno conto, finiscono col tifare per i personaggi che interpretano la parte dei “cattivi”.
Figuriamoci l’effetto che fanno certe scene nei giovani – e in quegli anni i malavitosi nostrani non erano certo vecchi – che hanno una certa inclinazione alla quale hanno già dato qualche sfogo: la suggestione può provocare una vera e propria emulazione. Gli esempi non mancano. Il più clamoroso quello verificatosi in Sicilia, dopo la trasmissione su ‘Canale 5′, verso la fine del 2007, de “Il capo dei Capi”, la fiction – addirittura di sei puntate – sulla storia di Totò Riina. L’anno dopo, nell’Agrigentino, scatta un’ operazione di polizia denominata “Capo dei capi” che porta all’arresto di un gruppo di 27 giovanotti – di età compresa tra i 19 e i 35 anni, conosciuti come “bravi ragazzi”, molti dei quali figli di affermati professionisti – che stava diventando una vera e propria organizzazione criminale dedita allo spaccio di droga. Il capo banda, 24 anni, studente universitario e grande ammiratore del sanguinario boss di Corleone, si faceva chiamare appunto “capo dei capi”, comunicava con gli altri membri attraverso “pizzini” e avrebbe chiesto l’autorizzazione a una nota cosca mafiosa per poter spacciare sostanze stupefacenti in provincia.
In proposito ho anche un ricordo personale degli anni Quaranta: quando avevo sei, sette, massimo otto anni, abitavo in provincia di Messina, e quando giocavo con i miei coetanei a guardie e ladri, sceglievo sempre la parte della guardia, ma raramente trovavo qualche … “collega”. Gli altri preferivano imitare il bandito Salvatore Giuliano e i suoi accoliti che però avevano sempre operato nella parte occidentale della provincia di Palermo e in quella di Trapani, terre lontane. Allora – Giuliano fu ucciso nel 1950 – non c’era la televisione: le notizie, sporadiche, arrivavano attraverso la radio e un unico quotidiano, la ‘Gazzetta del Sud’, e ci incuriosivano molto.
All’epoca, nel Messinese, la mafia non c’era: la scoprii nel 1956 quando mio padre, carabiniere, andò in pensione e ci trasferimmo in provincia di Trapani, dove c’era sempre stata. Là i coetanei erano assuefatti a un certo andazzo: non mostravano tanta meraviglia per il morto ammazzato, anche nella piazza centrale del paese: per loro l’omicidio mafioso era un semplice regolamento di conti e non esisteva un modo diverso… L’omertà, poi… Due anni dopo, a sedici anni, cominciai a raccogliere le pagine del quotidiano ‘L’Ora’ di Palermo – dove lavorava Mauro De Mauro, ma anche Felice Chilanti, originario di Rovigo – dedicate alla prima grande inchiesta giornalistica sulla mafia. Per quanto riguarda i settimanali davo spesso un’occhiata soprattutto alla “Domenica del Corriere”, rivista illustrata sempre in vista sul tavolino del salone del barbiere dove si poteva andare a leggerla anche prescindendo dal taglio dei capelli. Una volta, siamo nella primavera del 1958, pubblicò nella prima pagina a colori un disegno realizzato dal celebre Walter Molino che illustrava il fatto più interessante della settimana: l’arresto a Cavarzere di Adriano Toninato. Didascalia: «Arrestato il Giuliano della Val Padana. Il bandito Adriano Toninato, che a capo un’accozzaglia di fuorilegge in questi ultimi anni aveva compiuto numerose rapine nella pianura veneta, è stato catturato con il suo luogotenente, certo Coccato, in una cascina di San Pietro di Cavarzese (Venezia). Un drappello di carabinieri, guidati dal brigadiere Dino Ferrari, ha attaccato la casa in cui i due si erano rifugiati. Il Coccato sparava contro i militi; questi rispondevano al fuoco. In pochi secondi i pericolosi delinquenti venivano ridotti all’impotenza». Coccato era uno dei luogotenenti al quale Toninano aveva affidato la cura della sua banda a sud di Venezia, fino a Monselice. Inutile aggiungere che dopo aver letto andai a comprare la rivista per conservarla.
Col tempo mi resi conto che era sbagliato ritenere Toninato «il bandito Giuliano della Val Padana»: in realtà Salvatore Giuliano era tutt’altro che un semplice bandito essendo stato in contatto con politici conservatori e con la struttura dei servizi segreti americani che poi divenne la CIA in funzione anticomunista. Ma questo è un altro discorso…
Ricordi interessantissimi. Ma torniamo a Felice Maniero e alla sua banda.
Volentieri.
La seconda parte dell’intervista, la potete leggerla a questo link
Qui potete leggere la quarta e ultima parrte dell’intervista
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