di Umberto Curi (dal Corriere del Veneto 3/12)
«A Venezia ha sfilato il popolo del no»: in questi termini si sono espressi quasi tutti i commenti comparsi sulla stampa regionale, all’indomani della manifestazione promossa da ben 147 sigle di Comitati e Associazioni, in modi diversi impegnati nella tutela del territorio veneto. L’abbreviazione giornalistica può essere anche capita, vista la necessità di condensare in non molte righe un resoconto che avrebbe meritato un ben più ampio rilievo. Ma se non si tratta di scegliere un titolo, ma piuttosto di capire e interpretare le ragioni di fondo di un movimento che promette di essere tutt’altro che effimero, allora la formula citata all’inizio rischia di rivelarsi del fuorviante. Indubbiamente, alcuni slogan, talune prese di posizione, qualche dichiarazione avulsa dal contesto, possono indurre a credere che ci si trovi in presenza di una pura e semplice risacca conservatrice, inchiodata alla ripetizione ossessiva del rifiuto intransigente verso ogni forma di progresso. Ma un simile giudizio mancherebbe di cogliere le peculiarità più interessanti di un fenomeno in larga misura nuovo, sia sotto il profilo degli obbiettivi perseguiti, sia per quanto riguarda il rapporto più generale col sistema politico.
Cominciamo dal primo punto. Anche là dove assume la forma di un rifiuto – delle grandi navi nella laguna veneziana o dell’inceneritore nel veronese, dell’ampliamento dell’aeroporto trevigiano o della caserma Dal Molin a Vicenza – il vero baricentro delle rivendicazioni soggiacenti alla manifestazione di sabato scorso non è affatto riconducibile al «contro». Ciò che emerge infatti dalla ricca e assai articolata mole di documentazione prodotta dalle varie sigle che hanno partecipato alla sfilata è un’immagine in positivo del Veneto, radicalmente alternativa rispetto al «modello» implicito in gran parte delle cosiddette «grandi opere». Ciò per cui ci si batte, insomma, non è solo la prospettiva irrealistica e comunque culturalmente subalterna di bloccare il corso (comunque inarrestabile) della modernizzazione, ma è piuttosto la delineazione di un progetto di sviluppo affrancato dall’idolatria tecnologica, e proiettato a indicare analiticamente soluzioni praticabili e maggiormente rispondenti alle istanze e agli interessi dei cittadini di questa regione. Ma ancora più importante è un secondo punto. Sia pure indirettamente associazioni e comitati presenti a Venezia hanno posto una grande questione di fondo, di per sé tale da eccedere i confini strettamente regionali, poiché investe le forme concrete di organizzazione della democrazia. Di fronte alla crisi delle forme tradizionali della rappresentanza politica, macroscopicamente evidente nella caduta verticale della credibilità dei partiti, i soggetti scesi in campo in laguna alludono ad una possibile via di uscita pacifica e non traumatica, rispetto alla possibilità tutt’altro che remota di un collasso del sistema politico. Parlano di una democrazia costituita da una pluralità di entità individuali e collettive, ciascuna delle quali è portatrice di specifiche competenze, ed è altresì tramite di interessi materiali e culturali, ai quali occorre riconoscere voce politica effettiva, vale a dire la possibilità di influire in maniera non marginale nel processo delle decisioni politiche. Sviluppando le implicazioni di questa già in sé importante acquisizione, si potrebbe pervenire ad una proposta: chiunque vinca le prossime elezioni regionali dovrà confrontarsi sui singoli temi dell’agenda politica con le organizzazioni che agiscono sul territorio, le quali dispongono di «saperi» che sono indispensabili per una decisione politica veramente competente e responsabile. Con tutta la prudenza del caso, si può insomma intravedere nella pacifica fiumana di persone che hanno attraversato Venezia la linfa indispensabile per un non più differibile rinnovamento profondo della politica.