La pista da bob: il “regalo olimpico” che ha devastato Cortina

La montagna — quella vera, fragile, fatta di boschi, torrenti e comunità — paga ancora una volta il prezzo del grande spettacolo. La ristrutturazione dell’antica pista «Eugenio Monti» di Cortina d’Ampezzo, pensata per ospitare bob, skeleton e slittino alle Olimpiadi Milano-Cortina 2026, è diventata l’emblema di un modello di sviluppo che sacrifica ambiente e risorse pubbliche sull’altare dell’immagine. I test atletici e l’inaugurazione frettolosa non nascondono più le crepe: tagli di alberi secolari, cantieri invasivi, costi lievitati e tensioni sociali che covano sotto la neve.

La pista è stata più volte al centro di polemiche e contestazioni — non solo per la sua utilità sportiva, ma per l’impatto sul paesaggio e per la tenuta finanziaria dell’operazione. L’idea di ricostruire un impianto così impattante in un’area di pregio paesaggistico è stata contestata anche dall’International Olympic Committee, che aveva suggerito soluzioni alternative in sedi già attrezzate all’estero per ridurre costi e danni: l’Italia ha però voluto tenere gli eventi dentro i confini nazionali, con tutte le conseguenze.

Il dossier ambientalista non è teoria astratta: le proteste locali e gli allarmi di associazioni e parlamentari hanno messo sotto i riflettori i numeri e le scelte politiche. La deputata Luana Zanella ha definito la pista «una cattedrale nel deserto», accusando i promotori di avere sacrificato «centinaia di alberi» e di aver imboccato una strada di spesa insostenibile per i territori. Per Zanella, si tratta di un’opera faraonica che rischia di lasciare alla comunità un’eredità di debito e degrado, più che un lascito di utilità.

Le tensioni sono esplose anche in modo più brutale: nella notte tra il 20 e il 21 febbraio 2025 un grosso tubo del sistema di refrigerazione fu staccato e abbandonato sulla strada, un atto denunciato come sabotaggio che ha interrotto i lavori e messo in luce la qualità della conflittualità attorno al cantiere. Le autorità lo hanno definito «grave e inquietante», mentre molti ambienti di critica civica hanno chiesto di non ridurre la protesta a puro vandalismo, ma di ascoltare le ragioni dei territori.

Dal punto di vista economico il conto è pesante: ai costi di costruzione si sommano gli oneri di gestione e manutenzione di una struttura specialistica che difficilmente troverà un uso stabile dopo i Giochi. Zanella e altri esponenti ecologisti chiedono trasparenza sul calcolo dei costi e su chi alla fine li sosterrà: le promesse di «opere a costo zero» si sono scontrate con variabili e rincari che rischiano di gravare sui bilanci locali e regionali.

I sostenitori del progetto rispondono con argomentazioni di prestigio sportivo e sviluppo economico: il Comitato organizzatore e i tecnici sottolineano che il tracciato è stato progettato secondo standard moderni, che sono in corso le prove tecniche e che l’impianto potrà poi essere utilizzato per eventi e per l’allenamento degli atleti. Ma questa narrazione non attenua il problema di fondo: le Dolomiti non sono una riserva infinita su cui sperimentare opere temporanee, né il ritorno economico è scontato per le popolazioni locali, spesso escluse dalle decisioni.

La retorica degli investimenti e della visibilità rischia di coprire una semplice verità: costruire grandi opere in territori fragili con la scusa del prestigio internazionale è una forma di colonialismo interno. Le piante tagliate non tornano, il suolo compattato non si ripristina in pochi anni, e le comunità rimangono con il conto. Per questo chi, come Zanella, parla di «interessi voraci» non usa metafore: denuncia che politiche e decisioni sono spesso asservite a logiche di arricchimento e marketing, più che alla cura del bene comune.

Che fare allora? Il punto non è negare lo sport o l’importanza di eventi che uniscono, ma ripensare urgentemente il modello: criteri stringenti di valutazione ambientale, piani di riutilizzo credibili e finanziati, controllo pubblico sui costi e, soprattutto, vera partecipazione delle comunità locali alle scelte. Le Olimpiadi non sono una scusa per digitalizzare il paesaggio con infrastrutture che resteranno inutilizzate: devono essere occasione per politiche che lascino un’eredità sociale ed ecologica positiva, non macerie da contabilizzare tra i debiti.

La vicenda della pista da bob di Cortina è una cartina di tornasole: rivela come, anche in tempi di emergenza climatica, si continui a preferire opere spettacolari e costose piuttosto che investimenti diffusi e sostenibili. Se le montagne dovessero continuare a pagare con i loro alberi e le loro falde le velleità della politica dell’immagine, avremo perso tutti — non solo gli ambienti naturali, ma anche la dignità delle nostre scelte collettive.