La COP30 di Belém si è chiusa con un documento finale che anche gli osservatori meno critici hanno definito “debole” e “insufficiente”. Una autentica fiera del niente, svoltasi per di più in un contesto come l’Amazzonia dove l’urgenza climatica si incarna ogni giorno in continue emergenze ambientali. In mezzo a negoziati interminabili e pressioni crescenti della società civile, la COP si è conclusa guardandosi bene dall’affrontare la questione centrale della crisi climatica che, alla fin fine, è sempre la stessa: l’abbandono dei combustibili fossili. Il testo finale, infatti, non contiene alcun riferimento a un phase-out di carbone, gas e petrolio, nonostante oltre 80 Paesi — tra cui l’Unione Europea, fatta salva l’Ittalia che si è distinta per il nulla più assoluto — avessero spinto per un impegno chiaro. La resistenza di Russia, Arabia Saudita e di altri Stati produttori ha bloccato ogni progresso su questo fronte, relegando la discussione ai margini e rinviandola a percorsi volontari destinati a restare senza effetti reali. Per non parlare di Cina e Usa che non si sono neppure fatti vedere.
Tra i pochi risultati tangibili, la promessa di triplicare i finanziamenti per l’adattamento climatico dei Paesi vulnerabili entro il 2035, con l’obiettivo di raggiungere circa 120 miliardi di dollari l’anno. Una misura accolta positivamente da molte nazioni del Sud globale, ma che rimane isolata e priva di un quadro coerente di riduzione delle emissioni. A ciò si aggiungono nuovi strumenti come il Global Implementation Accelerator e la Belém 1.5°C Mission, presentati come acceleratori dell’azione climatica ma privi di vincoli, tempi e sanzioni: una costellazione di iniziative “soft” che, nel migliore dei casi, potranno accompagnare processi già in corso, ma non avviare la trasformazione profonda che la crisi climatica richiede urgentemente.
Nonostante la COP si tenesse nel cuore dell’Amazzonia, il tema della deforestazione è rimasto in secondo piano. Nessuna roadmap vincolante è stata inserita nel testo finale e anche la tutela delle popolazioni indigene — protagoniste di coloratissime proteste dentro e fuori i padiglioni della conferenza — si è tradotta in dichiarazioni di principio. Il nuovo Tropical Forests Forever Facility, annunciato come un possibile pilastro per la protezione delle foreste tropicali, rischia di diventare, come hanno sottolineato molte ONG, l’ennesimo canale di finanza privo di reali garanzie sulla salvaguardia degli ecosistemi e dei diritti delle comunità originarie. Insomma, la solita operazione di green washing. Le tensioni sono emerse con forza quando gruppi indigeni hanno bloccato l’accesso ad alcune aree della COP per denunciare ancora una volta l’assenza di impegni concreti mentre la devastazione delle foreste continua senza sosta .
Per le organizzazioni ambientaliste, la COP30 rappresenta più che un passo indietro, un punto di non ritorno: la dimostrazione di come il multilateralismo climatico abbia ceduto sotto il peso degli interessi geopolitici ed economici legati ai combustibili fossili. La conferenza che avrebbe dovuto segnare la rinascita dell’impegno globale — come faceva sperare la scelta di un palcoscenico come l’Amazzonia — si è trasformata in un esercizio di mediazione al ribasso. La scienza continua a indicare che senza una drastica riduzione delle emissioni entro questo decennio, ogni strategia di adattamento sarà solo un tentativo di mettere un pezza a danni sempre più gravi. Ma il documento finale di Belém continua a ignorare anche questa evidenza.
In conclusione, la COP30, pure se erano in pochi a sperarci, non ha prodotto né la guida politica né la scossa morale che la crisi del clima richiede. Ha lasciato l’immagine di un processo sempre più fragile, incapace di mettere un freno agli interessi dei grandi produttori di fossili e sempre meno capace di rispondere alla domanda di giustizia climatica che arriva dai territori e dai popoli in prima linea. Un paradosso doloroso: proprio nella terra che più di tutte rappresenta il confine del collasso, la politica internazionale ha scelto ancora una volta di non decidere per non mettersi in contrasto con le multinazionali fossili.
Alla fin fine, la cosa migliore che si è vista a Belem è stato l’incendio!
L’immagine di copertina è stata generata con l’AI
EcoMagazine Osservatorio sui conflitti ambientali